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La donna non esiste. E l’uomo? Quando a parlare sono i dati
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La donna non esiste. E l’uomo? Quando a parlare sono i dati

Articolo di Alessandra Vescio

«A cosa ci riferiamo con la donna? Con l’articolo determinativo la, posto di fronte a donna, intendiamo indicare una donna assoluta. E dobbiamo ammettere che questa donna non esiste, pur facendoci comodo diversamente.»

 

È con queste parole che si apre il saggio conclusivo di La donna non esiste. E l’uomo? Sesso, genere e identità, volume collettaneo a cura della professoressa ordinaria di Filosofia teoretica all’Università di Genova, Nicla Vassallo. Tema centrale della raccolta, uno dei più dibattuti degli ultimi anni: il rapporto tra sesso, genere e identità, appunto.

Niente è dato per scontato all’interno del volume: non lo è la distinzione tra sesso e genere, non lo sono le motivazioni che scatenano il dibattito, né tantomeno l’autorevolezza – e in certi casi la vulnerabilità – della scienza. La raccolta è divisa in sette capitoli redatti da altrettanti esperti, ognuno dei quali affronta l’argomento principe in base al proprio ambito di competenza. Se l’argomento trattato è quello sopracitato, gli strumenti utilizzati per andare a fondo nel problema sono infatti la conoscenza e il metodo scientifico. Come a dire che finché parliamo con dati e studi alla mano non si esprime un’opinione, ma si riporta una realtà.

Posto che «l’appartenenza sessuale caratterizza femmine e maschi in virtù delle loro caratteristiche biologiche» mentre il genere è il «carattere maschile o femminile dell’individuo, anche in senso biografico, sociale, professionale», una delle questioni messe in luce nel volume è l’importanza e la necessità della medicina di genere. Con questa definizione non si intende la medicina che si occupa delle patologie delle donne, come chiarisce subito Adriana Albini, direttrice scientifica della Fondazione Multimedica Onlus e direttrice del laboratorio di biologia vascolare e angiogenesi IRCCS MultiMedica di Milano e Sesto San Giovanni. Piuttosto è quella branca della scienza medica che prende in considerazione la donna in quanto donna e perciò con sintomatologie, incidenza e risposte alle cure per una data malattia differenti rispetto all’uomo.

A parlare di biologia in senso stretto invece c’è Ulrich Pfeffer, medico e ricercatore che da anni si occupa di genomica dei tumori. La biologia sostiene che sì, «ci sono delle differenze tra uomini e donne», ma al contempo «esiste una grande variabilità all’interno dei due sessi». I casi di intersessualità, infatti, sono molto meno rari di quello che si pensa. Il ruolo che giocano i geni nella determinazione del genere, a dispetto di ciò che vuole far credere il determinismo biologico, è poi sempre limitato da fattori ambientali e personali; ed è anche la flessibilità della natura biologica dell’uomo, aggiunge Pfeffer, da un lato ad aver permesso l’evoluzione della specie e dall’altro a rendere privo di basi scientifiche il tentativo di «richiamare le persone a un comportamento ‘naturale’»: «nella discussione su sesso e genere, il biologo non può fare da arbitro».

Di evoluzione si parla anche nel capitolo dedicato alla bioetica, in cui si mette in luce il superamento del principio di inscindibilità tra significato unitivo e procreativo dell’atto sessuale avvenuto nel corso del tempo. In parole semplici, il sesso non è più finalizzato alla procreazione. Se da un lato ciò ha provocato un evidente e non trascurabile disagio, dall’altro si dimostra essere un avanzamento di civiltà. Il sesso perde il suo significato morale e la contraccezione, la fecondazione assistita, ma anche l’aborto, hanno favorito un controllo sulle nascite. Tutto questo conduce da un lato a una riflessione sulla capacità parentale più che su quella riproduttiva, dall’altro al riconoscimento dell’inadeguatezza del binarismo sessuale e la ricerca di nuove espressioni al di là del maschile/femminile per un principio di inclusione.

Proprio dal ruolo svolto dal linguaggio parte invece il saggio sull’ingiustizia discorsiva a cura di Claudia Bianchi, professoressa ordinaria di Filosofia del linguaggio presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «Il linguaggio», si legge nel testo, «viene identificato come uno dei luoghi chiave dell’oppressione e dell’ingiustizia». Nello specifico, «l’appartenenza a un gruppo sociale svantaggiato (per genere, razza, orientamento sessuale e religione) rende difficile, e a volte impossibile, il compimento di certi atti linguistici, annulla o distorce la possibilità di fare cose con le parole. Le parole dei gruppi oppressi avrebbero, in quest’ottica, meno potere performativo, meno capacità di far presa sulla realtà e di agire nel mondo sociale». Sono i pregiudizi insomma a condizionare l’atto linguistico ed è per questo che si parla di ingiustizia discorsiva.

Ma i pregiudizi spesso portano anche a manipolare uno dei campi che più dovrebbe avere a che fare con l’obiettività e l’imparzialità, ovvero la ricerca scientifica. Come spiega infatti Vera Tripodi del Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione dell’Università di Torino, la comunicazione scientifica è pregna di un fenomeno subdolo e spesso difficile da individuare che prende il nome di neurosessismo. Il neurosessismo si sviluppa in due sensi: non soltanto alcune ricerche scientifiche sulle presunte differenze tra il cervello femminile e quello maschile sono state mosse da (o tese a giustificare dei) preconcetti, ma vengono anche considerate come verità assolute: «queste idee spopolano sui mass media, sono accolte positivamente dal pubblico medio e fanno la fortuna di autori di bestseller». Appare quindi chiaro che il determinismo sia quasi rassicurante, salvo poi generare disuguaglianze e discriminazioni. «Quanti e quali sessi dobbiamo prendere in considerazione quando studiamo il cervello?», si chiede per esempio la Tripodi, conscia che la biologia riconosce le sfumature.

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La stessa domanda all’interno del volume se la pone Eva Cantarella, professoressa ordinaria di Istituzioni del diritto romano, che attraverso il racconto del mito dell’androgino dimostra quanto guardare all’antichità possa non tanto dare delle risposte, ma aiutare a cambiare prospettiva.

A chiudere il volume, ovviamente, una riflessione di Nicla Vassallo. Attraverso una scrittura provocatoria e concreta, a tratti estrema, la Vassallo vuole dimostrare quanto l’immagine della vera donna sia una «mera creazione, creazione maschile, di un maschio artefice e pertanto attivo». Non esiste una donna, esistono tante, tantissime donne e imporre loro un’essenza a cui ispirarsi e con cui doversi identificare è solo un modo per privarle della loro identità e limitare le differenze, svilirle e «ostacolare la conoscenza del sé». Non solo: superare il dualismo maschile/femminile è, per la Vassallo, una necessità e un’aspirazione tanto da teorizzare altrove l’esigenza di far prevalere una mente androgina, senza connotazioni maschili o femminili.

La donna non esiste è un testo breve ma complesso, ricco di informazioni e spunti interessanti. Capace di far riflettere sull’importanza di superare il binarismo e abbattere gli stereotipi di genere, il volume collettaneo fa parlare i dati, le ricerche, la scienza.

Perché mentre oggi la disinformazione fa notizia, la conoscenza ha il dovere e l’esigenza di fare ordine.

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