Per molt* di noi il passaggio al nuovo decennio è stato accolto da sentimenti contrastanti. Contrariamente alla gioia che è solita scaturire dai nuovi inizi (il nuovo anno, il nuovo decennio, i nuovi anni Venti…), si è fatta strada la paura nei confronti del futuro e la conseguente spinta (positiva) a dovere e a volere cambiare le cose.
Non è solo la pandemia a spaventarci, dunque, ma anche la nostra casa che va a fuoco. Sotto forma di incendi boschivi, intemperie e disastri naturali, il cambiamento climatico, da concetto astratto e distante, si è infatti tramutato in inconfutabile realtà. Non c’è quindi da meravigliarsi del fatto che sempre più persone stiano riconsiderando le proprie abitudini e mettendo in discussione i propri consumi. Così, accanto alle consuetudini alimentari e al consumo di plastica e di acqua, l’attenzione si concentra ora sempre di più anche sul tema della moda.
L’industria della moda infatti è responsabile dell’8% delle emissioni globali di CO₂ ed entro il 2050, qualora il settore non aggiusti il tiro, questo dato potrebbe addirittura arrivare al 26%. Inoltre, nel processo di produzione vengono spesso utilizzati coloranti chimici (parola chiave in questo caso: jeans), i quali nuocciono ai lavoratori e alle lavoratrici e contaminano le acque. Inoltre, le fibre sintetiche ricavate dal petrolio greggio, che durante i normali lavaggi vengono scaricate nelle falde acquifere sotto forma di microplastiche, rendono i nostri capi d’abbigliamento insostenibili. E insostenibile è anche la produzione di tessuti in cotone convenzionale, per i quali vengono adoperate ingenti quantità d’acqua.
Secondo il New Standard Institute, i fattori più importanti su cui porre l’attenzione al fine di rendere il settore della moda davvero più sostenibile sono due: le emissioni di CO₂ e la sicurezza sul lavoro/remunerazione equa. I lavoratori e le lavoratrici del settore tessile, come riporta anche Oxfam, sono infatti sottopagat*, sottopost* ad abusi ed espost* a sostanze tossiche e ad ambienti di lavoro insalubri. Secondo Oxfam, affinché lavoratori e lavoratrici possano affrontare il costo della vita (e ricevere un salario degno), le aziende dovrebbero alzare i prezzi di meno dell’1% a capo.
Intanto, l’attenzione delle persone verso il mondo della moda sostenibile sta crescendo notevolmente. Nel suo “Year in Fashion Report 2019”, il motore di ricerca dedicato alla moda Lyst segnala un aumento del 75% rispetto al 2018 per quanto riguarda termini di ricerca relativi alla sostenibilità. In particolare, sono stati ricercati materiali più sostenibili come l’Econyl (scarti di nylon rigenerati) e il cotone organico.
A tal proposito, vi sono già dei pionieri del settore: a gennaio 2020, la Settimana della Moda di Copenaghen ha pubblicato un piano triennale sul tema della sostenibilità. Oltre agli sforzi compiuti per ridurre la propria impronta ecologica, tra cui una riduzione del 50% delle emissioni e un obiettivo di azzeramento degli sprechi, sono state imposte delle rigide regole ai brand sfilanti sul piano della sostenibilità. Tali criteri dovranno essere soddisfatti entro tre anni, pena il divieto di partecipazione attiva alla Settimana della Moda di Copenaghen.
Anche Dior ha sottolineato l’importanza del rispetto per l’ambiente attraverso la collezione Primavera/Estate 2020 di Parigi: la sfilata del marchio francese ha visto modelle con acconciature a trecce a “effetto Greta Thunberg” in una foresta di 164 alberi appositamente allestita. “La moda è un progetto e siamo in un momento in cui bisognerebbe pensare a come rinnovare questo progetto”, ha dichiarato Maria Grazia Chiuri, designer e direttrice creativa di Dior. Kering, il business group di lusso che riunisce marchi come Gucci e Bottega Veneta, ha rilasciato una dichiarazione nel settembre 2019 in cui si impegna a garantire il raggiungimento di zero emissioni di tutte le imprese coinvolte, in ogni sua operazione e nel processo di produzione e distribuzione. Entro il 2025, le emissioni di CO₂ dovranno ridursi già del 50% rispetto al 2015. Anche il gruppo del lusso LVMH ha tenuto una conferenza sulla sostenibilità a Parigi nell’autunno 2019, in cui si è discusso di “LVMH Initiatives for the Environment” (LIFE), campagna lanciata nel 2012. In questa occasione ha annunciato di essere in anticipo rispetto all’agenda degli obiettivi LIFE per il 2020, ovvero ridurre l’impatto ambientale dei prodotti; implementare i più alti standard ambientali e sociali al 70% delle catene di approvvigionamento; ridurre le emissioni di CO2 del 25%; migliorare l’efficienza ambientale dei siti produttivi e amministrativi e i negozi del 10%. In aggiunta, LVMH ha recentemente stretto un sodalizio con il marchio sostenibile Stella McCartney e ha nominato l’omonima stilista come consulente.
Una moda a zero emissioni è però praticamente impossibile: anche i capi prodotti in maniera sostenibile richiedono una certa quantità di emissioni di CO₂ ed esercitano un impatto su ambiente e risorse. Persino i vestiti ricavati da vecchie bottiglie di plastica, per esempio, vengono prodotti a un certo costo. Lo shopping che in assoluto rispetta maggiormente l’ambiente è quello di seconda mano: prima di tutto perché così facendo si evita che vestiti in buone condizioni finiscano nelle discariche e poi, acquistando un capo già esistente, non si contribuisce alla produzione di nuovi capi e dunque di nuovo inquinamento. Persino le star del cinema hanno intrapreso la strada del riuso: agli Oscar 2020 Margot Robbie ha scelto un abito vintage e Joaquin Phoenix ha scelto di indossare lo stesso smoking firmato Stella McCartney per tutta l’Award season.
Ad ogni modo, sembra proprio che qualcosa si stia finalmente muovendo. D’altronde sarebbe stato impossibile per i brand di moda più rinomati continuare a chiudere gli occhi davanti a una questione di tale livello e all’insistente invito all’azione. Sostenibile is the new black.