
Nata nella fredda pioggia di novembre, nel lontano 1994. A…
Il 24 Aprile 2013 a Dacca, in Bangladesh, è avvenuta una delle più grandi tragedie umane dell’ultimo decennio: il complesso industriale di Rana Plaza – un edificio di otto piani sede di numerose attività – è crollato uccidendo 1129 persone e ferendone in modo grave altre 2500. La struttura conteneva una banca, diversi negozi e una fabbrica di vestiti in cui lavoravano oltre 5000 persone. Sono proprio queste ultime operaie ad aver pagato il prezzo più alto del disastro.
I problemi strutturali erano già stati denunciati il giorno prima, quando l’edificio era stato evacuato a causa di evidenti crepe. Il proprietario, Sohel Rana, però, aveva immediatamente dichiarato lo stato di sicurezza dello stabile intimando ai dipendenti di ritornare al lavoro il giorno successivo. Ciò che è accaduto la mattina seguente è tristemente rimasto nella storia.
Il crollo di Rana Plaza ha segnato un punto cruciale per l’industria della moda, mettendo davanti agli occhi di tutto il mondo – o meglio, di chi ha voluto guardare – quale fosse la condizione in cui sono costretti a vivere e a lavorare gli operai che producono i vestiti che indossiamo. Da quel giorno è nato un dibattito che anno dopo continua a porci la domanda: c’è un’alternativa al Fast Fashion? E se non c’è, possiamo crearla? Possiamo farla crescere?
A questo punto però è necessaria una premessa:
Cos’è il Fast Fashion?
Con il termine Fast Fashion si intende un preciso modello produttivo che ha iniziato a imporsi tra la fine degli anni ’90 e gli inizi degli anni 2000. Sostanzialmente si basa sulla riproduzione dei trend presenti nelle collezioni di prêt-à-porter, per portarli, in tempi sempre più brevi e a prezzi sempre più bassi, al mercato di massa. Un’idea semplice e geniale che ha permesso a catene come Zara, H&M, Primark, Topshop e tanti altri di diventare leader del mercato delle confezioni. Questa strategia, incentrata sulla competizione, sul prezzo e sul tempo, però, produce una serie di conseguenze devastanti sia per l’ambiente che per le persone impiegate nell’industria, complice anche il fatto che, fino a quattro anni fa, erano molti meno coloro che si domandavano come un sistema di produzione simile potesse stare in piedi.
Il prezzo degli indumenti che troviamo nei negozi, infatti, è sceso a tal punto da non poter essere più giustificato con economia di scala (il costo unitario della produzione diminuisce proporzionalmente all’aumento della scala di produzione) e di scopo (il costo unitario della produzione diminuisce in corrispondenza della produzione congiunta di prodotti diversi per cui si utilizzano gli stessi fattori produttivi: in questo caso le stesse materie prime, gli stessi impianti, gli stessi lavoratori). Ovvero, in parole più semplici, non è possibile che, affinando le tecniche di produzione e migliorando l’efficienza degli impianti, il prezzo di una T-shirt scenda fino a pochi euro.
Quindi i produttori di indumenti lavorano in perdita? Certamente no, il drastico abbassamento dei prezzi e la celere riduzione dei tempi di lavorazione sono resi possibili da alcune scelte dei produttori che ricadono sulle spalle delle persone che lavorano nelle fabbriche e sull’ambiente naturale. Sono questi ultimi a pagare gran parte del costo dei nostri vestiti, non i consumatori finali che li acquistano e poi indossano.
Impatto sociale
Uno dei risvolti negativi del mercato globale è il fatto di aver permesso alle aziende (soprattutto alle grandi multinazionali, ma non solo) di delocalizzare la produzione nelle aree del mondo in cui è possibile produrre a prezzi più bassi. Ovvero i paesi in via di sviluppo – principalmente del sud-est asiatico – dove non esistono contratti collettivi, diritti e organizzazioni sindacali, leggi sul salario minimo, congedo di maternità, un sistema previdenziale adeguato, e dove in generale i lavoratori sono privi di tutele legali.
Fonte: OECD
Secondo i dati diffusi da Clean Clothes Campaign, in Bangladesh i salari minimi si aggirano dai 54 ai 68 dollari al mese, imponendosi di fatto come il paese con la più bassa retribuzione. The True Cost – un consigliatissimo documentario del 2015, molto dettagliato e interamente dedicato a questa tematica – contiene diverse interviste a lavoratori del settore tessile in Bangladesh, Vietnam e Cambogia che spiegano come, anche se sulla carta i loro salari risultano essere attorno ai 100 dollari mensili, nei fatti non ne percepiscano più di 80. È quasi scontato dire che i tentativi da parte degli operai di opporsi a questa vera e propria schiavitù, che li costringe a turni anche di 12 ore in ambienti insalubri (a causa delle numerose sostanze chimiche usate nei processi di lavorazione dei tessuti) e in pessime condizioni di sicurezza, vengano repressi con violenza da parte della polizia. Gli episodi verificatisi in Cambogia tra il 2013 e il 2014, quando i lavoratori scesero in piazza chiedendo che il salario minimo fosse alzato a 160 dollari mensili, ne sono un triste esempio .
FONTE: The Phnom Penh Post
Un altro intero capitolo si potrebbe poi dedicare alla questione dell’occupazione femminile. Sempre secondo Clean Clothes Campaign, oltre l’80% dei lavoratori dell’industria tessile sono donne. La ragione è ben riassunta dalla testimonianza di un’operaia del Bangladesh presente sul sito del progetto:
«Le donne possono essere controllate come dei burattini, è molto più difficile abusare degli uomini allo stesso modo. Ai padroni degli impianti non importa se chiediamo qualcosa, le richieste degli uomini invece devono essere tenute in maggior considerazione. Per questo non assumono lavoratori uomini.»
Gli imprenditori approfittano del notevole gender gap presente in questi paesi per utilizzare manodopera femminile e mantenere i salari ai minimi della sopravvivenza. Agiscono praticamente indisturbati grazie alla complicità degli stereotipi di genere così radicati nella cultura locale.
Oltre all’aspetto economico, poi, sono innumerevoli gli episodi di abusi sessuali, i soprusi e i maltrattamenti fisici e psicologici (specie in caso di gravidanza) da parte dei superiori nei confronti delle lavoratrici. Secondo uno studio condotto da Sisters For Change, a Bangalore (India) una su sette donne impiegate nell’industria tessile ha subito violenza sessuale sul lavoro.
Un altro triste risvolto è la relazione esistente tra il traffico di esseri umani, il turismo sessuale e le fabbriche di vestiti. Per esempio, la Cambogia ha da qualche anno attuato delle politiche statali volte a contrastare lo sfruttamento della prostituzione, che consistono nel sottrarre le ragazze alle case chiuse e inserirle in programmi di rieducazione e formazione professionale, per poi reindirizzarle verso l’industria tessile. Le modalità utilizzate per la riqualifica, però, sono molto discusse e, come mostra un documentario realizzato nel 2014 da Vice News, spesso le condizioni di vita nelle fabbriche sono persino peggiori dello sfruttamento sessuale.
Impatto ambientale
L’altro gravissimo risvolto è quello dell’impatto sull’ecosistema terrestre. Ci sarebbe tantissimo da dire a riguardo, ma non è questa la sede più adatta per farlo. Riassumendo molto in breve, stando a The True Cost, l’industria tessile è una delle più inquinanti al mondo, seconda solo a quella petrolifera. Il settore della moda aggredisce l’ambiente principalmente in quattro modi:
1. Coltivazione delle fibre tessili (soprattutto cotone): per stare al passo con la richiesta crescente, i coltivatori fanno un uso sempre maggiore di pesticidi e sostanze chimiche che inquinano pesantemente l’ambiente e causano la diffusione di gravi malattie (tra cui alcuni particolari tipi di cancro, riscontrati nei lavoratori del settore agricolo e petrolifero) nelle comunità locali.
2. Stabilimenti di produzione: i prodotti chimici (altamente tossici), usati nella lavorazione del cuoio e degli altri tessuti, sono scaricati nell’ambiente circostante senza che si faccia uso di adeguate misure di smaltimento, poiché gli impianti sono localizzati in paesi privi di normative per la tutela e del territorio. Ciò ha conseguenze pesantissime anche sulla popolazione locale.
3. Trasporto di grandi quantità di merce: produzione e consumo sono localizzati in due parti ben distinte del mondo, e spostare ogni giorno una tale quantità di merci produce livelli elevatissimi di inquinamento. I mezzi di trasporto usati, infatti, hanno un pesante impatto ambientale. Questo discorso si ricollega poi ad altri problemi di sfruttamento delle risorse locali per la produzione di beni di cui usufruiscono popolazioni di altri territori: fenomeni, come per esempio il water grabbing, che creano una ripartizione scorretta di costi e benefici.
4. Rifiuti tessili: il fatto che un indumento costi solo dieci euro ci fa sentire apparentemente più “ricchi” in quanto possiamo permetterci di comprarne tanti, anche se in realtà non ne abbiamo bisogno. E dato che il prezzo è così basso, ci sentiamo giustificati a buttarli via senza pensarci troppo quando non ci piacciono più. Secondo le cifre diffuse da The True Cost, ogni anno un cittadino statunitense produce 37kg di rifiuti tessili. In totale, solo gli USA ne raccolgono 11 milioni di tonnellate annue, che vengono in gran parte smaltite negli stessi paesi da cui provengono i manufatti. Questi rifiuti sono per lo più non biodegradabili (a causa dell’elevata quantità di prodotti chimici presenti nei vestiti prodotti industrialmente) e rimangono per più di duecento anni nelle discariche in cui sono accumulati, emanando inoltre gas tossici.
Verso una fashion revolution
Tutto ciò fin qui detto fa capire che l’industria della moda deve fare i conti con dei problemi sistemici notevoli: possiamo davvero considerarla efficiente e ben funzionante se non è in grado di garantire a buona parte dei suoi lavoratori delle condizioni di vita accettabili, se la sua crescita si basa sulla distruzione di interi ecosistemi e se tutti i profitti rimangono concentrati nelle tasche di pochi brand in un’area limitata del pianeta?
Pochi mesi dopo quel fatidico 24 aprile 2013 è nato un movimento, fondato da Carry Somers e Orsola De Castro, che a questa domanda ha risposto chiaramente di no. L’iniziativa si chiama FASHION REVOLUTION e ha lo scopo di spiegare come e perché il modo in cui funziona attualmente quest’industria – che fattura oltre 3 trilioni di dollari l’anno – non va bene, non è accettabile, non è sostenibile. La loro mission consiste nel sensibilizzare e promuovere:
«Un’industria della moda che rispetti le persone, l’ambiente, la creatività e il profitto in eguale misura».
A partire dal 2014 ogni anno, in questo giorno, l’associazione celebra il Fashion Revolution Day: in memoria di ciò che è successo a Rana Plaza, si organizzano eventi e conferenze in tutto il mondo (sì, anche in Italia), per fare in modo non solo che tragedie del genere non si ripetano, ma anche che, pian piano, con l’impegno e l’interesse di sempre più persone, l’industria della moda diventi più etica e responsabile. Dal 2016, poi, l’iniziativa si è estesa fino a dar vita a un’intera Fashion Revolution Week (da oggi fino al 30 aprile). Il momento chiave di tutto è la campagna #whomademyclothes. È a questo punto che anche voi potete entrate in gioco: vi basta postare sui social una foto dei vestiti che possedete e taggare i brand di moda cui appartengono insieme all’hashtag #whomademyclothes (“Chi ha fatto i miei vestiti?”).
L’approccio partecipativo dell’iniziativa si basa su uno dei concetti cardine del consumo critico, ovvero insegnare a ogni consumatore che ha un potere: spesso lo sottovalutiamo, ma, ogni volta che abbiamo dei soldi in tasca, abbiamo un enorme potere che esplicitiamo nel momento in cui scegliamo come spenderli. E siccome da grandi poteri derivano grandi responsabilità, ognuno di noi è responsabile di tutta la filiera produttiva che si cela dietro la T-shirt che acquista. Partendo da questo presupposto, ci sono moltissime cose che possiamo fare per dare un contributo concreto e significativo a questa rivoluzione della moda:
-Mettere in discussione i brand da cui compriamo: fare loro domande (in modo diretto, tramite i loro canali ufficiali e il servizio clienti) e fare pressione affinché siano a conoscenza di cosa succede nelle manifatture. Campagne come #whomademyclothes sono un’occasione perfetta.
-Comprare e supportare brand che fanno moda eco-sostenibile (senza una domanda non c’è un’offerta!).
-Comprare vestiti di seconda mano: è una delle scelte più green che si possano fare, in quanto non viene usata nuova energia e nuovi materiali per produrli.
-Acquistare prodotti di maggiore qualità (che durino a lungo nel tempo) e supportare le manifatture locali.
-Ritrovare il valore dei vestiti: capire che il vero valore economico di ciò che indossiamo non è solo quello che paghiamo. Dobbiamo essere consapevoli che c’è una parte del costo che noi non sosteniamo direttamente, ma che comunque esiste: siamo responsabili di tutte le mani che hanno toccato i nostri indumenti prima di noi.
In conclusione di tutto questo ampio e complesso discorso vorrei proporre una riflessione più personale. Negli ultimi anni molti retailer (Bershka, Pull&Bear, H&M, solo per citarne alcuni) stanno proponendo indumenti che richiamano alla gender equality e si stanno facendo promotori di un filosofia di empowerment che piace molto al pubblico. Si potrebbe parlare di un vero e proprio trend delle “statement T-shirt” con un impegno sociale. Sebbene tutto questo sarebbe apprezzabile di per sé, in quanto sta “normalizzando” e rendendo più quotidiani questi argomenti permettendo a molti giovani ragazzi e ragazze di avvicinarvisi in modo spontaneo, non trovate un’incoerenza di fondo se a mettere in atto queste politiche commerciali sono gli stessi brand che approfittando dello sfruttamento della manodopera femminile per produrre vestiti a prezzi sempre più bassi?
Gli ideali di empowerment non dovrebbero estendersi solamente ai loro clienti, ma anche ai loro produttori. Non è credibile una T-shirt che sprona le ragazze a far valere i loro diritti, quando la donna che l’ha cucita non è in grado di far valere il proprio diritto di avere un ambiente di lavoro sicuro, un impiego che non la esponga a continue molestie e maltrattamenti, dei turni di lavoro ragionevoli e uno stipendio che le garantisca una vita decorosa. Magari potremmo partire proprio da loro e taggare le aziende che ce le hanno vendute per chiedere: #whomademyclothes. Chi ha fatto i miei vestiti?
ALTRE FONTI (materiali utili per l’approfondimento):
http://www.indianet.nl/pdf/UnfreeAndUnfair.pdf
http://www.usfashionindustry.com/pdf_files/WRC-Report-Vietnam.pdf
https://cleanclothes.org/issues/gender
http://sistersforchange.org.uk/india-eliminating-violence-against-women-at-work/
https://www.youtube.com/channel/UCxACkFpwxQpt6l9oNNR_Xcw
http://www.greenreport.it/news/acqua/water-grabbing-maude-barlow-vi-spiego-cose/

Nata nella fredda pioggia di novembre, nel lontano 1994. A oggi adora le scienze sociali, ama i gatti e il tè verde, e assume dosi elevate di metallo (nel senso musicale del termine). Non sa bene quale posto nel mondo chiamare casa, ma sta imparando a conviverci.