Articolo di Pietro Balestra
Sono convinto non sia necessario spiegare cosa sia il Nazismo e cos’abbia rappresentato per la storia dell’umanità. Tuttavia, è ancora il caso di porsi un’unica, breve domanda: come?
Com’è stato possibile che un solo uomo, Adolf Hitler, il Führer, sia riuscito a tenere un intero continente sotto scacco, coinvolgere l’intero mondo nella più feroce guerra della storia e attuare il più grande genocidio, macchiandosi del più grande crimine contro l’umanità mai compiuto?
Ammettiamolo: questa domanda ci fa paura, perché scavare un po’ più a fondo nelle ragioni del Nazismo e di Hitler, svelare il volto umano dietro al mostro, ci costringerebbe a sentirci un po’ più simili a lui.
Noi, però, dobbiamo comprendere, lo dobbiamo alle milioni di vittime; perciò ci diamo risposte sbrigative come: «Hitler era un pazzo che ha avuto la fortuna di trovare qualcuno che credesse ai suoi deliri».
Ma un folle con quattro cani da guardia al seguito non crea un impero, non scatena una guerra mondiale e non ammazza a sangue freddo più di sei milioni di persone: se tutto ciò è stato possibile, se Hitler ha potuto fare quel che ha fatto, è perché la Germania, i tedeschi, l’hanno scelto.
Perché?
Già la Germania era uscita sconfitta dalla Grande Guerra; di poi, la neonata Repubblica di Weimar rimase vittima della crisi finanziaria del 1929. Colti alla sprovvista dal disordine e dalla povertà, i tedeschi avevano animi colmi di risentimento, paura, odio, rabbia e violenza. Allora Hitler.
Il bisogno di credere in un destino eroico aveva preparato la resa incondizionata a un Capo «carismatico» in grado di rievocare l’immagine di una Germania risorta. Ma fu Adolf Hitler […] a tradurre magistralmente in consenso plebiscitario le aspettative e le ansie dei tedeschi. Il paese della tecnica e della razionalità amministrativa rispose come un sol uomo al suo richiamo «quasi messianico» e nel momento dell’angoscia e della disperazione riconobbe un salvatore nella sua figura paterna, sobria e coraggiosa.
Orgoglio e genocidio. L’etica dello sterminio nella Germania nazista – Alberto Burgio e Marina Lalatta Costerbosa – 2016 – p. 182
In quest’ottica, la Gemeinschaft (comunità), cioè la “tedeschità” autentica è sia il valore da proteggere, sia la via per riottenere la passata gloria; gli ebrei, il nemico da superare, il capro espiatorio su cui sfogare ogni negatività inespressa, col favore di un Capo, di un Padre, che non solo ha dato il permesso, ma si è anche fatto carico di ogni responsabilità.
Ma perché?, ancora ci dobbiamo chiedere. Com’è possibile che un’intera nazione abbia, da un giorno all’altro, messo da parte la propria umanità, dato libero sfogo a ogni istinto violento, in nome di un’ideologia nuova? È bastato così poco – un discorso appassionato, una lacrimuccia e un applauso – per mettere da parte l’etica, il valore della dignità umana vigenti fino a un momento prima?
Per rispondere a questa domanda, possiamo avvalerci dell’aiuto di Alice Miller – psicanalista svizzera vissuta tra il 1923 e il 2010 – e, in particolare, al suo saggio La persecuzione del bambino. Le radici della violenza (1980).
La sua è una prospettiva antipedagogista; Miller ritiene, cioè, che ogni guida, manuale d’istruzioni per allevare i piccoli sia in realtà inutile, se non deleterio, un modo per soffocare la libertà creativa dei bambini, sentendosi però nel giusto, perché qualcuno ha scritto che è giusto far così.
Al centro della critica di Alice Miller, c’è la Schwarze Pädagogik (pedagogia nera). Per spiegare cosa essa sia, l’autrice cita un corollario di saggi di pedagogisti del passato, secondo i quali è compito del bravo genitore/educatore annientare la testardaggine e la cattiveria del bambino (termini forvianti che vorrebbero invece significare la volontà, la libertà creativa), insegnargli il rispetto e l’obbedienza dell’autorità fin da piccolissimo, anche (e soprattutto) attraverso la violenza psico-fisica. Così cresceranno futuri adulti ligi al dovere e devoti a chi li ha cresciuti; e sempre questi futuri adulti, a loro volta, educheranno agli stessi valori, con gli stessi metodi coercitivi, i propri bambini.
Miller dissente.
Il bambino cresciuto attraverso i metodi della pedagogia nera – spiega la psicanalista – impara fin da subito a reprimere i propri sentimenti, le proprie emozioni e a soffrire in silenzio: lui ama l’adulto, perché ne ha bisogno; perciò non può immediatamente riconoscere come tali le ingiustizie subite, al contrario deve giustificarle, convincersi di meritare ogni schiaffo, ogni insulto…
Al prigioniero sottoposto a maltrattamenti non è consentito, è vero, di opporre resistenza o di ribellarsi alle umiliazioni, ma egli è tuttavia libero di odiare dentro di sé il suo aguzzino. Questa possibilità di vivere i suoi sentimenti […] gli consente di non dover rinunciare al proprio Sé. È appunto questa opportunità che manca al bambino. Egli non deve odiare suo padre, come ordina il quarto comandamento e come gli fu inculcato sin da quando era piccolo, ma d’altra parte non può neppure odiarlo, se deve temere di perderne l’amore e infine non vuole odiare, perché lo ama.
La persecuzione del bambino. Le radici della violenza – Alice Miller – 1980 – p. 115
Il bambino diventa un adulto con un Sè in frantumi, insicuro e carico di sentimenti negativi rimossi che hanno bisogno fisiologico d’essere sfogati. Alcuni riescono a incanalarli in modo creativo attraverso l’arte, altri distruggendo sé stessi con la droga (è il caso, citato nel saggio, di Christiane F., da cui è anche tratto il film biografico Noi, ragazzi dello zoo di Berlino), altri ancora distruggendo qualcun altro, come i propri figli, per esempio, in un loop che pare non trovare mai fine. Perché? Perché l’adulto (genitore, ma anche maestro o prete) approfitta dei bambini per rifarsi delle violenze subite, ma nel frattempo ha la coscienza pulita, perché è così che gli studiosi dicono di educare i bambini ed è così che lui stesso è stato educato.
Questa era l’educazione che vigeva nella Germania nazista, la stessa educazione che ha spinto i tedeschi a scegliere, a innamorarsi di Hitler: da un lato, erano tanto assuefatti all’autorità, che fu loro naturale abbandonarsi a un dittatore; dall’altro, il Führer era ai loro occhi il padre affettuoso e gentile che non avevano mai avuto, finalmente un padre che alzava le mani per accarezzare e non per picchiare; infine, suddetto padre aveva accordato il permesso per sfogare le proprie negatività con la violenza.
Non solo – ricorda Miller – i tedeschi erano vittime inconsce della pedagogia nera, ma anche lo stesso Hitler.
Suo padre, Alois Hitler, aveva avuto un’infanzia molto difficile, sotto il segno della vergogna della povertà, dell’essere un figlio illegittimo, per giunta per metà ebreo. Divenuto padre, egli sfogava le proprie frustrazioni sul piccolo Adolf, di nemmeno quattro anni, colpevole di non aver avuto le sue stesse sfortune.
La persecuzione degli ebrei “rese possibile” a Hitler “correggere” il proprio passato sul piano della fantasia. Essa gli consentì:
1) di vendicarsi del padre, che divenne sospetto di essere mezzo ebreo;
2) di liberare la madre (la Germania) dal suo persecutore;
3) di ottenere l’amore della madre [attraverso l’amore del popolo] con minori sanzioni morali ed esprimendo più apertamente il suo vero Sé […];
4) di rovesciare i ruoli: lui stesso è ora diventato dittatore […];
5) inoltre, la persecuzione degli ebrei gli rese possibile di perseguitare il debole bambino presente nel proprio Sé […].
La persecuzione del bambino. Le radici della violenza – Alice Miller – 1980 – p. 181
Vogliamo, ora, vincere le nostre reticenze e provare a confrontare con noi stessi, con la nostra contemporaneità, queste riflessioni?
Chiediamoci: esiste ancor oggi una pedagogia nera? Esistono oggi dei “nuovi nazismi”?
Assolutamente sì.
Io trovo che una prova lampante di ciò si possa facilmente reperire su Facebook: quante pagine e quanti commenti pieni d’odio e violenza si possono leggere?
Lo schema, è lo stesso della Germania degli anni Trenta: persone deboli, insicure e arrabbiate hanno bisogno di sfogare la propria violenza repressa, perciò abbracciano totalmente un’ideologia, si uniscono a una comunità di “fratelli”, magari si sottomettono a un “padre”, e, soprattutto, si scelgono un nemico da odiare, da perseguitare e violentare.
Facciamo ora qualche esempio concreto.
In Italia non esiste alcuna emergenza immigrazione; al contrario, siamo uno dei paesi col più alto numero di rimpatri in Europa: sono molti gli immigrati che entrano nel nostro paese, ma quasi altrettanti quelli che escono. Eppure sono molte le persone che, invece di istruirsi, si fidano ciecamente delle Destre che, in nome dell’“italianità”, istigano all’odio e alla violenza nei confronti degli stranieri.
Allo stesso modo agiscono quelle associazioni religiose che sfruttano la Bibbia e i Vangeli per unire tante persone in un sentimento di odio contro la comunità LGBT+. Dietro l’omotransbifobia sembra esserci il bisogno di trovare una giustificazione che abbia la forma di un’ideologia, dei valori cui appellarsi (come la famiglia cosiddetta “naturale” o la complementarietà dei ruoli di genere) e l’individuazione di un nemico, per giustificare una violenza che sarebbe, altrimenti, semplicemente barbara.
La naturale reazione a queste forme di odio da parte di chi le subisce è ovviamente fatta anch’essa di odio, ma questo è un odio diverso perché nasce dalla rabbia e dalla paura motivate, da un vissuto fatto di violenze, dalla consapevolezza di non potersi mai sentire al sicuro e di essere costrett* a subire ingiustamente e senza alcuna logica le discriminazioni, i soprusi e gli abusi di chi, forte del ruolo di potere e del privilegio di cui gode nella società contemporanea, manifesta e agisce violenza per convinzioni che non hanno alcuna logica. Un esempio di questo tipo di odio è quella che erroneamente viene definita “eterofobia”. Questo termine, per costruzione e assonanza, sembra voler mettere sullo stesso piano l’omofobia (odio ingiustificato nei confronti degli omosessuali) e i sentimenti negativi che la comunità LGBT+, per motivate ragioni, può provare nei confronti delle persone eterosessuali. Nonostante le ragioni che li determinano, però, anche in base a ciò che è stato detto fino a qui, appare chiaro come nessun sentimento negativo possa portare a risvolti positivi.
D’altro canto, oggi esiste una pedagogia deleteria collaterale, cui Miller aveva solo accennato nel secondo capitolo del suo saggio (cfr. Esiste una ʽpedagogia biancaʼ? in La persecuzione del bambino, Alice Miller, 1980). Sempre più genitori, infatti, dalla generazione anni Sessanta in avanti, per rifarsi delle violenze subite, lasciano che i loro figli dettino legge su tutto e tutti, insegnando così ai bambini che loro sono i padroni, gli altri gli schiavi, gli oggetti di cui è giusto che usufruiscano come meglio credono per soddisfare istinti e bisogni. In questo modo crescono adolescenti e adulti privi di empatia (come le vittime dell’educazione autoritaria), che manifestano il loro senso d’autorità divertendosi nel far violenza sugli altri.
Due recenti casi di cronaca avvalorano la mia tesi.
Nel 2015, durante una gita scolastica a Roma, quindi ragazzi di quindici, sedici anni organizzano una festa in una delle stanze d’albergo. Durante la suddetta, uno di loro viene preso di mira, spogliato, rasato, “addobbato” con caramelle e, naturalmente, filmato durante tutta l’umiliazione. Tornati a Cuneo, il video fa il giro della scuola. La preside sospende e dà il quattro in condotta a tutti e quattordici gli aggressori. Giusto, no? È stata una violenza e doveva essere punita. Eppure non è così che la pensano le mamme degli aggressori, che si rivolgono, indignate, a La Stampa: «Macché bullismo. Macché violenze. È stato uno scherzo. Forse pesante, ma uno scherzo. Lo sbaglio è una punizione tanto severa».
La notte del 26 giugno 2016, a Salerno, una ragazza di sedici anni è stata stuprata da cinque coetanei. Quando sono stati fermati e interrogati dai carabinieri, questi sono rimasti impassibili, anzi, straniti: non capivano cos’avessero fatto di male e volevano tornare a casa. Sono stati tutti, ovviamente, condannati. Uno dei genitori ha così commentato tutta la vicenda: «Io a quella lì e alla mamma le avrei impiccate. Questi sono tutti bravi ragazzi. Perché non ha urlato e chiesto aiuto? Ve lo dico io: si è divertita pure lei ieri sera».
I genitori, che giustificano i figli davanti a quelli che sono palesemente dei crimini contro terzi, favoriranno la crescita di persone prive d’empatia, incapaci di percepire il dolore altrui, e tendenzialmente violente.
La morale della storia – da Adolf Hitler al genitore dello stupratore di Salerno – potrà suonare banale; ma, a ben rifletterci, non è poi così scontata: bisogna trovare la giusta via di mezzo.
Trasferire sui figli i soprusi sofferti durante l’infanzia è sempre dannoso: sia che si crescano con eccessiva autorità e violenza, sia che si permetta loro di sfogare ogni pulsione, il risultato è sempre una persona educata secondo un’etica della violenza, una persona che perpetrerà un’etica della violenza…
Penso che oggi siano stati fatti molti passi avanti.
Miller scrive che è importante riprendersi il sacrosanto diritto di essere arrabbiati coi propri genitori per poter perdonare e andare avanti con la propria vita.
Ebbene, oggi abbiamo questo diritto, no? Diventati adulti indipendenti, possiamo guardarci indietro e accettare ciò che di buono i nostri genitori ci hanno trasmesso, e ciò che invece (umanamente) ci hanno fatto di male; così da proseguire, da un lato facendo meglio di chi ci ha preceduti, dall’altro sbagliando, perché anche noi siamo umani. Ma tutto ciò senza serbare odio e violenza e sempre nel rispetto dell’altro, affinché non sia il nostro capro espiatorio per un male subito, ma una persona.