L’estate è finita ormai molti mesi fa, e con essa se ne sono andate molte novità con le quali avremo a che fare per molto tempo. Non è stata solo infatti la stagione dell’estremo caldo, del negazionismo dei cambiamenti climatici, delle alluvioni improvvise, dei disastri naturali. È stata anche la calda estate che ha portato animali, andati apparentemente in letargo, ad uscire dalla tana e cibarsi. Sì, perché proprio in questa estate abbiamo sentito parlare di davvero tante specie di animali che sono usciti per potersi cibare e provare in qualche modo a mettere da parte quelle prede e quegli alimenti necessari alla pura autonomia fisiologica. Così sembrerebbe la vita di un predatore qualsiasi. Se non fosse che, in questo caso, ad essersi cibato nell’estate del 2023, come in tante altre stagioni e in tanti altri anni, è stato l’uomo. Anzi, molti più di un solo uomo hanno tentato di accaparrarsi il maggior nutrimento possibile per potersi finalmente sentire, esageratamente, sfiziosamente, rudemente sfamati.
E come se questo non fosse bastato, il loro intervento improvviso nella scena nazionale, con casi come quelli di Palermo e poi di Caivano, hanno portato altri uomini a dire che, di fondo, non si tratta altro che di animali, quindi perché non aspettarselo? Animali che per natura dovranno nutrirsi, al seguito della scia emanata dal sangue di povere donne, che in quanto tali dovrebbero, a quel punto, prevenire il possibile improvviso attacco della bestia.
Stiamo davvero vivendo come animali? O quell’uso improprio del linguaggio così dato per scontato non è niente altro che l’arma più efficace per nascondere la colpevolezza puramente umana e che, se trattata come tale, potrebbe anche essere miracolosamente arginata?
Così facendo, infatti, si tende inevitabilmente a diminuire la colpevolezza dell’uomo che ha commesso uno stupro, e ad addossare, in maniera subdola, la colpa alla vittima. Da qui, infatti, la necessità di dover capire cosa significa essere vittima.
Tamar Pitch, tra le studiose contemporanee che più ne hanno parlato, individua l’area di studio della vittimologia, interrogandosi sulla tendenza inevitabile, insita nella nostra stessa società, a vedere la figura femminile come simbolo santificato a vittima.
Così facendo, questa sua demonizzazione esagerata, porta a vedere la donna in qualsiasi sua condizione come già anticipatamente vulnerabile, debole, fragile, esposta al pericolo. Il vittimismo, definito come punitivo, rappresenta quindi quella tendenza sociale ad attribuire alla vittima di una situazione ingiusta ulteriori discriminazioni, oltre a quelle da cui già essa parte. Le donne, quindi, partono già inevitabilmente da condizioni di disparità e inferiorità rispetto all’uomo e quando essa dovrà subire una condizione di ingiustizia, questa vulnerabilità sarà sfruttata ulteriormente. Si crea, quindi, una doppia discriminazione che non fa altro che danneggiare ancor più la vittima, perché tale, e perché fonte rinnovabile di discriminazione e disuguaglianza. Tutto ciò quindi si può aggravare anche e soprattutto con l’utilizzo di un linguaggio non consono, capace di incrementare ancora di più la posizione vulnerabile della vittima. Definendola come a conoscenza della pericolosità che la circonda, questa dovrà rispondere di comportamenti volti alla propria sicurezza che le permettano di allontanare il pericolo. Piuttosto, quindi, che parlare del pericolo stesso e come arginarlo, ci si concentra su come scampare quel problema, perché in fondo destinato a rimanere tale. Così sarà anche facilmente riconducibile la condizione di dipendenza ad una necessità di sicurezza e cura che la donna predisporrà verso l’uomo, vedendo in quest’ultimo la riserva in grado di salvarla, dall’altro uomo, quello che l’attaccherà su spinta naturale.
Ecco che, discorsi come quelli fatti da Andrea Giambruno, potrebbero potenzialmente anche trovare fondamenti teorici validi alla loro stessa pronunzia: “donna, perché tu sei tale, devi poterti proteggere, perché giocherai e cercherai di vincere già partendo da una posizione inferiore e maggiormente esposta al pericolo rispetto a quella dell’uomo, che d’altro canto, si sta solo comportando secondo la sua natura, quella da animale”. Quando infatti l’attenzione sarà posta su questo, sull’autore dello stupro, allora egli sarà descritto e si presenterà, esso stesso, come la risultante di un mondo, in fondo, fin troppo animalesco. Un mondo dove la natura umana è tale perché ha, ancora, dei rimandi ad un mondo primitivo e visceralmente bestiale. Attenzione, però, questo sarà valido per l’uomo perché, in quanto bestia, deve necessariamente soddisfare il suo essere tale, rispondendo a quelle fami interiori insite di indifferenza e guidate dalla brama per il potere. Quanto alle donne, loro saranno delle gatte, che in quanto tali, dovranno per forza essere incapaci di poter far altro se non il concedersi a quei favori sessuali devoti al piacere dell’altro. E a quel punto, perché mai lamentarsi di ciò? In fondo, quel nostro essere animali, giustifica a priori e senza necessità di punizione ogni qual condizione che alimenti, in questo caso, la cultura dello stupro. E finché ci sarà chi tenderà a raccontare la realtà, che nella realtà è solo umana e non degli animali, come appartenente ad una sfera da noi lontana perché al di fuori di quella razionalità che altrimenti ci auto-regoleremmo e riconosceremmo, allora anch’egli contribuirà a rafforzare il problema. Anche solo di poco, infatti, si andrà ad eliminare la mancanza di consapevolezza e di maturità relazionale necessaria ad unire gli umani, perché in quanto tali, e perché fermamente convinti di non essere animali, contro un sistema errato.
Il linguaggio è lo specchio della società ed è proprio attraverso l’evoluzione del linguaggio che questa può cambiare. Pur non portando ad una risoluzione radicale di fenomeni che rientrano nella cultura dello stupro, sicuramente iniziare a chiamare gli eventi e gli autori delle violenze con il loro nome potrebbe essere un passo avanti per aiutare a trovare gli strumenti fondamentali per una futura risoluzione.
Così facendo la bestia potrebbe finalmente estinguersi, perché finiremmo di chiamarla tale, e al suo posto potremmo tornare a far riemergere quello che la realtà ha comprovato: la colpevolezza di un sistema errato che, omertosamente, ha continuato a nascondere queste dinamiche, addossando peccati a chi per primə subisce l’ingiustizia e chiamando animali chi di umano invece ha tutto.