TW: Violenza sessuale, linguaggio esplicito
Ogni volta che un uomo, un uomo che non è mai stato stuprato e che non sa bene cosa voglia dire la parola stupro, a gran voce si mette a sentenziare sull’esperienza vissuta e raccontata da una donna che invece uno stupro lo ha subito e che ha deciso di denunciarlo, accade qualcosa di molto pericoloso. Accade che la voce di quest’uomo contribuisce alla banalizzazione e normalizzazione, nelle nostre società, della violenza sessuale degli uomini contro le donne. Sono molteplici i meccanismi culturali messi in atto quando un caso di stupro assume rilevanza mediatica, gli esempi in merito sono tristemente noti e frequenti. Questi meccanismi sono raggruppabili in quattro macrocategorie che rientrano tutte nel grande calderone del victim blaming, cioè il fenomeno di colpevolizzazione della vittima che si verifica più o meno sistematicamente quando una donna denuncia una violenza sessuale. I quattro meccanismi sono:
- Silenziazione della vittima
Avviene quando la vittima è screditata e le sue parole sminuite, con l’obiettivo di metterla a tacere.
- Negazione
Consiste nella negazione della violenza subita dalla vittima senza che a stabilirlo sia stata la sentenza di unə giudice.
- Trasferimento della colpa
La colpa è trasferita dal carnefice alla vittima, ritenuta completamente o in parte responsabile dell’atto sessuale
- Pretesa di inevitabilità
Si potrebbe riassumere con la frase “boys will be boys”, e deriva dalla convinzione che le molestie e i comportamenti abusivi fanno parte della natura degli uomini e dunque non possono essere cambiati, sono inevitabili ed è inutile che le donne protestino o denuncino, devono solo accettarli passivamente.
Questi meccanismi alimentano e consolidano la cultura dello stupro. Per cultura dello stupro non si intende che tutti gli uomini sono stupratori seriali, ma ci si riferisce a un paradigma culturale nel quale le violenze e gli abusi sono minimizzati e normalizzati, attraverso l’associazione della sessualità alla violenza, che porta a considerare sexy e desiderabili atteggiamenti violenti e abusivi. In sostanza, la cultura dello stupro è pensare che è possibile, normale e, pertanto, accettabile che un uomo possa stuprare una donna. I processi di colpevolizzazione della vittima adoperano all’interno di questo sistema un cambio di prospettiva che allontana chi lo adotta dalla realtà dei fatti, e cioè che il solo colpevole dell’abuso è lo stupratore.
Il paradigma culturale appena delineato si fonda su una serie di falsi miti che ruotano attorno allo stupro e che costruiscono l’immagine della vittima ideale, l’unica concepibile per un numero ancora troppo alto di persone, la quale presenta una serie di caratteristiche. La vera vittima è colei che ha sul suo corpo segni ben visibili della violenza, perché questi dimostrano la sua volontà di opporsi allo stupratore, il suo mancato consenso. A tal proposito, la vera vittima è quella che a un certo punto, durante l’atto di violenza, dice un forte e chiaro “no”; eppure, nel caso in cui questa parola è detta, spesso assume il significato di “convincimi”. La vittima ideale è quella che il giorno dopo corre subito a denunciare, che si rintana nella sua stanza e piange ininterrottamente. La vittima ideale al momento della violenza non indossava biancheria di pizzo, pantaloni attillati, gonne corte o maglie scollate. La vera vittima non aveva bevuto alcolici, né assunto droghe. La vera vittima non ha rapporti sessuali frequenti, non va in una casa con soli uomini, non cammina per strade buie.
In altre parole, la vera vittima è il frutto dell’idea di donna che il patriarcato impone, è un insieme di regole rigide che stabiliscono cosa una donna può e non può fare, cosa deve indossare, come deve reagire, che persona deve essere. Le donne che hanno subito uno stupro e che non mettono una spunta a tutte le caratteristiche della lista sono considerate a priori delle bugiarde. Questo identikit della vittima ideale va smontato pezzo dopo pezzo; perché la “vera vittima” non esiste, non è mai esistita.
Innanzitutto bisogna decostruire la concezione di stupro da cui derivano queste credenze: ci è stato insegnato che lo stupro è un atto estremamente violento e sanguinoso, perpetrato da uno sconosciuto che, in preda a un raptus di follia o per soddisfare un desiderio sessuale incontrollabile, trascina con la forza la sua vittima in una strada buia e isolata per violentarla. La verità è che la violenza sessuale non ha a che fare con la sfera sessuale, né tantomeno con la follia: lo stupro è una lucida forma di manifestazione di potere e il più delle volte lo stupratore non è uno sconosciuto, ma una persona vicina alla sua vittima (secondo l’ISTAT nel 62% dei casi si tratta del partner). Inoltre, dovrebbero insegnarci che l’abuso può avvenire anche in un luogo familiare come la camera da letto della propria abitazione, e che la coercizione non è soltanto fisica, può essere anche, per esempio, di natura psicologica.
Questa cattiva narrazione dello stupro, fornita e supportata da giornali, media, prodotti audiovisivi e purtroppo a volte anche dai tribunali ha conseguenze disastrose, perché rende difficile a chi subisce un abuso di riconoscerlo come tale e genera nella survivor un annichilente senso di colpa.
Un altro falso mito da sfatare sullo stupro riguarda la convinzione che la vittima debba opporre resistenza in modo evidente, dimenandosi, urlando, cercando di attaccare il suo assalitore. Ci sono alcuni casi in cui lo stupro avviene senza lotta, senza che la vittima provi a fuggire. È stato dimostrato da alcuni studi che durante una situazione in cui si subisce una violenza sessuale, il corpo può generare una risposta fisiologica alla paura che coinvolge il sistema nervoso parasimpatico, denominata freezing o rape induced paralisys (paralisi indotta da stupro), che si manifesta attraverso un irrigidimento muscolare, una sorta di “congelamento” parziale o totale del corpo, e un’incapacità di emettere suoni, condizione che può durare fino a diversi minuti. La paralisi indotta da stupro è paragonabile a un meccanismo di difesa noto come immobilità tonica, tipico di alcuni animali di fronte a una situazione di pericolo o di intrappolamento, che consiste per l’appunto in una paralisi muscolare indotta dalla paura, scatenata da un istinto primitivo di conservazione di sé. In altre parole, il freezing non è sinonimo di consenso, al contrario è una reazione adattiva del nostro corpo che, nel caso di rape survivor, ha la funzione primaria di evitare che lo stupro si trasformi in femminicidio.
Un’ulteriore importante riflessione riguarda il tempo necessario per denunciare uno stupro. Ritorna spesso una delle tante argomentazioni che siamo stanchə di sentire, secondo la quale se una persona subisce uno stupro, la prima cosa che deve fare il giorno dopo è andare a denunciare. Se lo fa dopo le prime quarantotto ore, allora vuol dire che quello che dice non è vero. Come se lo stupro avesse una data di scadenza, uguale a quella che troviamo dietro una scatola di biscotti. Chiunque la pensi in questo modo ignora il fatto che oltre al tempo scandito dagli orologi esiste un tempo interiore, del tutto soggettivo, che varia da persona a persona e che nessuno è in grado di misurare. Ci sono innumerevoli motivi per cui una donna il giorno dopo non corre dai carabinieri a denunciare, tra cui la paura di non essere creduta o l’incapacità di processare quanto accaduto e di riconoscere che ciò che ha subito era una violenza. Ogni persona vittima di abusi elabora il trauma in maniera diversa e del tutto insindacabile. Ci sono persone che in seguito al trauma soffrono di stress postraumatico o amnesia dissociativa, che causa la rimozione completa o parziale di ricordi legati a ciò che è accaduto. Un’altra ragione per cui molte donne non denunciano è il timore delle conseguenze, è la paura del linciaggio mediatico, del victim blaming, dei video intimi che potrebbero uscire fuori e circolare sui gruppi Telegram.
Molte vittime semplicemente credono che denunciare sia inutile; la grande maggioranza dei violentatori denunciati non finisce in prigione. Secondo alcune statistiche, solo 230 su 1000 stupri sono denunciati (ciò significa che in 3 casi su 4 la vittima non denuncia) e di questi 230 casi di denunce, soltanto 5 si concludono con l’incarceramento dello stupratore. Coloro che perpetrano un abuso sessuale hanno meno probabilità di finire in carcere rispetto ad altri criminali. Questi dati dimostrano anche quanto sia fallace l’argomentazione secondo la quale certe donne denuncino per fama e soldi. La percentuale di donne che denunciano è così bassa, e il numero di abuser realmente puniti così esiguo, che non c’è alcuna ragione logica per cui una donna possa sperare di arricchirsi denunciando una violenza. Tra l’altro, il più delle volte le modalità attraverso le quali una survivor diventa “famosa” sono lo slut shaming da parte dell’opinione pubblica e le accuse di essere una scalatrice sociale.
Mentre le sentenze faremmo bene a lasciarle a chi ha il titolo e le competenze per emetterle, potremmo iniziare a muovere dei piccoli grandi passi per supportare le donne che denunciano una violenza. Circolano spesso sul web, per esempio, spezzoni di video che riguardano stupri avvenuti. Non cerchiamoli, non guardiamoli, non inoltriamoli. Non partecipiamo alla perpetrazione della cultura dello stupro.
C’è una cosa semplice che possiamo fare quando ci troviamo di fronte a una donna che dice di aver subito un abuso, e cioè dire “io ti credo”. È un atto d’amore e di solidarietà potentissimo, l’unico davvero necessario.
i prodotti audiovisivi non diffondono miti di stupro, raccontano cose che possono accadere e accadono, stupri ad opera di sconosciuti come ad opera di persone conosciute, cinema e serie tv hanno raccontato ogni casistica. La vittima può reagire lottando oppure stando ferma è comunque una vittima, la sua reazione che sia di lotta o che sia di immobilità è valida, e in qualunque modo reagisca al trauma va rispettata