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Cosa ci sta insegnando il caso Weinstein
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Cosa ci sta insegnando il caso Weinstein

Articolo di Eugenia Fattori

“You know, I’m automatically attracted to beautiful — I just start kissing them. It’s like a magnet. Just kiss. I don’t even wait. And when you’re a star, they let you do it. You can do anything. […]  Grab ’em by the pussy. You can do anything.”

 

“Sai, sono automaticamente attratto dalla bellezza – inizio semplicemente a baciarle. È come una calamita. Semplicemente le bacio. Non aspetto neanche. E quando sei una star, te lo lasciano fare, puoi fare qualunque cosa. […] Prenderle per la figa. Puoi fare qualunque cosa.”

Queste sono parole di Donald Trump, Presidente degli Stati Uniti in carica, registrate durante una conversazione con Billy Bush di “Access Hollywood” nel 2005 e rese pubbliche da The Washington Post, durante la campagna elettorale del 2016.

Parole dette quando non era ancora in politica ma che a un altro uomo, meno ricco e potente, sarebbero costate la campagna elettorale e forse la carriera. Sappiamo invece che non solo queste parole erano il sintomo di un problema ben più grande (erano state precedute e seguite da più di 20 accuse di molestie e stupro, tra cui quella della sua ex moglie Ivana), ma che non hanno avuto alcun effetto neppure sul lungo termine e sommandosi alle accuse di cospirazione internazionale, evasione delle tasse e corruzione di prove a suo carico.

A volte si parla di Trump come di un invincibile villain impossibile da scalfire, che può fare le cose peggiori senza subirne le conseguenze, una specie di mostro onnipotente a cui non ci si spiega come mai tutto sia concesso. Purtroppo invece Trump non è un mostro isolato, ma il prodotto all’ennesima potenza di una società in cui più sei famoso, più diventi intoccabile non soltanto perché hai soldi e potere, ma anche perché riesci a raccogliere una legione di persone disposte a fare qualsiasi cosa per non finire tra i tuoi nemici. Dal difenderti anche se sei indifendibile (come fa una parte del mondo del cinema europeo con Roman Polanski), al fingere di non vedere quello che sta succedendo, fino alla vera e propria complicità nei crimini: se sei un maschio ricco e famoso hai a disposizione vari livelli di servilismo utili a mantenere la tua reputazione e la tua posizione nel mondo.

Specie se a combatterti ci sono solo donne molto meno influenti di te e il caso di Harvey Weinstein ne è un esempio lampante: anche a lui è stata applicata la narrativa del “mostro isolato”, come se non ci fossero in ogni luogo del potere uomini che fanno continuamente la stessa cosa. Weinstein infatti, come Trump, è stato per anni particolarmente attento a rivolgere il suo interesse solo a donne la cui carriera dipendeva da lui (memorabile la volta in cui ci provò con Gwyneth Paltrow, figlia della Hollywood Royalty, e ricevette minacce più che esplicite da Brad Pitt che allora era suo compagno), donne che di fronte a lui erano deboli e non avrebbero mai potuto sperare di avere giustizia. Se lo stupro è già di per sé un gesto di dimostrazione del potere spesso ancora oggi scambiato per attrazione sessuale, lo stupro quando sei un uomo così potente è una conferma di un potere che ti fa illudere di essere al di sopra persino della legge.

E quando la legge finalmente si muove, gli uomini di potere negano, insabbiano, mescolano le acque il più possibile quando si trovano coinvolti in questi casi: Kobe Bryant è uscito da un processo per stupro con un accordo che non ci permetterà mai di sapere se fosse innocente o colpevole e dopo che la difesa ha manipolato la rape shield law (una legge che protegge le donne che accusano di stupro, limitando la possibilità di portare in tribunale la loro condotta sessuale passata); Polanski è scappato in Francia e continua ad approfittare della legge francese per sfuggire a un’accusa di violenza sessuale nei confronti di una minorenne avvenuta a Los Angeles (e sono ormai sei le accuse di stupro a lui rivolte pubblicamente), e Weinstein ha cercato, in questi mesi di processo, di far passare se stesso come vittima e le donne che lo accusavano come avide profittatrici.

Il fatto che non ci sia riuscito e sia stato condannato, nonostante da più di 80 accuse si sia arrivati a due (per decorrenza dei termini della denuncia, perché casi fuori dalla giurisdizione di New York e perché in tante non hanno avuto il coraggio di andare in tribunale, oltre al caso di Lucia Evans, intaccato da una serie di errori burocratici) e nonostante sia stato condannato solo per due sui cinque capi d’accusa, è un cambiamento che non si può definire altro che epocale.

Si tratta di una breccia più che rivoluzionaria in quel sistema fatto per proteggere gli uomini potenti, e che nei casi di stupro utilizza la legge non per difenderli, ma per aggredire le vittime. Perché prima di ogni cosa, in una causa per stupro viene messo in dubbio se la vittima sia un vera vittima, in modo da dimostrare poi che lo stupratore non è un vero stupratore: atteggiamento, abbigliamento, pregressa storia sessuale, tutto viene considerato lecito argomento per sminuire l’accusatrice e minarne la credibilità attraverso una distruzione sistematica della sua immagine. Se ci si pensa, è curioso come “la legge” venga spesso invocata come argomento razionale per distinguere tra stupri “reali” e accuse, ma poi ci si appelli a motivazioni morali ed emotive quando si cerca di distruggere le argomentazioni delle vittime: Polanski “è stato perdonato” dalla ragazza che ha violentato (serve ricordare forse che, per essere “perdonato”, una cosa devi averla effettivamente fatta), le accusatrici di Weinstein erano persone poco serie, erano in cerca di fama, erano addirittura innamorate di lui.

Per negare i casi di stupro basta un argomento morale, ma per provare uno stupro la storia è molto diversa: ci vogliono prove anche a distanza di molti anni, c’è un limite arbitrario fissato per la denuncia, ci vogliono testimoni. Ed è proprio per questo che il caso Weinstein crea una rottura in un sistema che troppo a lungo si è lasciato manipolare da uomini così potenti – ma anche da uomini qualunque, se pensiamo che in Italia la maggior parte degli stupri avviene tra le mura domestiche – da credere di potersi fare le proprie regole.

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Il caso Weinstein è tutt’altro che arrivato alla fine (ci sono altre accuse che aspettano l’ex produttore cinematografico a Los Angeles), ma questo esito ci ha dimostrato che si può fare, che si può portare avanti un caso anche quando tutte le circostanze lo sconsiglierebbero e vincerlo. Sta lì a dirci che questi quattro anni di incessanti discorsi e di incessanti lotte hanno prodotto qualcosa di concreto e che l’odiosa espressione “alleged rapist”, in questo specifico caso, scomparirà dai giornali.

In attesa di un giorno in cui i numeri reali conteranno qualcosa e non sarà la vittima a dover dimostrare la propria credibilità morale, ma il contrario: perché i numeri americani ci dicono che un uomo ha più probabilità di venire violentato che di essere falsamente accusato di violenza e che il 63% degli stupri non viene neppure denunciato.

Negli Stati Uniti, lo stupro è il crimine che costa di più al sistema, 127 miliardi di dollari ogni anno contro i 71 degli omicidi: una prova lampante di un sistema che non funziona e che non solo danneggia le donne, ma anche gli uomini che non corrispondono al profilo di Weinstein (bianco, eterosessuale, ricco). Vale persino per gli attori di Hollywood, ce l’hanno dimostrato storie come quella di Brendan Fraser: se sei il più debole, proveranno a schiacciarti.

A riprova del fatto che lottare contro le molestie sessuali è una questione che riguarda il genere, certo, ma soprattutto riguarda il potere. Si tratta di lottare contro chi approfitta dei vantaggi che questo sistema gli offre, di cercare giustizia per tutt*, non di andare sotto casa di ogni uomo col forcone in mano.

Con buona pace di chi parla di “caccia alle streghe”, confondendo il genocidio di circa centomila persone povere e marginalizzate, di cui tre quarti donne, con la messa alla berlina di ricchi uomini che abusano del proprio potere.

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