Nel novembre 2018, in Irlanda, un ragazzo accusato di stupro è stato assolto perché la vittima indossava un perizoma. Questa decisione ha dato vita a una rivoluzione che, sotto l’hashtag #ThisIsNotConsent, ha portato i manifestanti a brandire il proprio intimo “provocante” e urlare per le strade e sui social che una mutanda di pizzo non equivale al consenso.
Nel luglio 2018, in Italia, in relazione a un caso di stupro di gruppo, la Corte di Cassazione ha stabilito che, se la vittima di stupro ha volontariamente assunto bevande alcoliche, non si può aggiungere l’aggravante del ricorso a sostanze alcoliche e stupefacenti in un’accusa di stupro. Il messaggio che molti hanno recepito è che la vittima sceglierebbe volontariamente di mettersi in una situazione pericolosa.
Già nel 1999, in Italia, in quella che è diventata la famosa “sentenza dei jeans”, la Corte di Cassazione aveva negato una violenza sessuale perché la ragazza vittima indossava i jeans. Secondo la sentenza, essendo “dato di comune esperienza” che non sia possibile sfilare i jeans “nemmeno in parte, senza la fattiva collaborazione di chi li porta”, venne ritenuto che tra i due ci fosse stato un rapporto consenziente.
Ricordo personalmente quell’episodio e ricordo anche i dibattiti intorno a me, riguardo quel caso e quell’affermazione shock. Non so dove appresi la notizia, ma ricordo che un giorno indossavo un paio di jeans e, mentre ero per strada, mi sono chiesta se davvero non fosse possibile togliermeli contro la mia volontà. Ho pensato: “Fai attenzione, perché se succede qualcosa poi potranno dire che è colpa tua”.
Questi esempi di sentenze cristallizzano un fenomeno chiamato “victim blaming” (in italiano, “colpevolizzazione della vittima”), ovvero quel meccanismo che porta, più o meno esplicitamente, a incolpare la vittima stessa della violenza subita. Questo può accadere in diversi modi, a seconda della circostanza; la forma più comune è commentare quello che indossava una vittima di stupro o di molestie per andare a ricercare possibili elementi che scagionerebbero, anche solo parzialmente, il responsabile dell’atto.
Cosa ci porta a dare la colpa alla vittima?
La dinamica del victim blaming ha la funzione di spostare l’enfasi dall’aggressore alla vittima, scagionando il reale responsabile e non intaccando la sua reputazione. Spesso è la stessa persona responsabile delle accuse di molestie o violenze a tentare di deviare l’attenzione da sé, soprattutto con la consapevolezza che ci sono buone probabilità che la società prenda le sue parti. La reazione della società che molto frequentemente si riscontra in risposta a un episodio di violenza di genere infatti è quella che prova ad attribuire responsabilità alla vittima per le violenze subite, prendendo le difese dell’uomo accusato; una tendenza riassumibile nella frase “se l’è cercata”, ovvero in quell’idea che la donna non sia prive di colpe, che abbia in qualche modo tentato o provocato l’aggressore o fatto intendere qualcosa di diverso da ciò che realmente desiderava.
Dare la colpa alla vittima è in molti casi un meccanismo automatico, un approccio che abbiamo imparato presto e a cui siamo socialmente educati ed educate. Non è infatti un mistero che siamo inclini a interiorizzare e riprodurre ciò che osserviamo: vedendo ripetutamente una determinata dinamica, la facciamo nostra, la riproduciamo, la interiorizziamo.
Un’altra dinamica comune è quella di comportarci con gli altri come gli altri si sono comportati con noi: a “fare agli altri quello che è stato fatto a noi”. Comportamenti maschilisti e patriarcali, come è il victim blaming, sono infatti spesso portati avanti da generazioni di donne che hanno subito gli stessi torti, a cui è stato insegnato che certe cose funzionano in un certo modo e che quindi si ritrovano a riprodurre una determinata dinamica nello stesso identico modo in cui l’hanno subita in prima persona.
Il victim blaming nei media
Essendo una pratica socialmente diffusa, il victim blaming è presente anche a livello mediatico e giornalistico ed è messo in atto sia da donne che da uomini che, consapevolmente o meno, riportano notizie di molestie o violenze in modo inappropriato. Descrivere i vestiti indossati dalle vittime di violenza o descrivere l’aggressore come una “buona persona” o come qualcuno che solitamente non si comporta in questo modo sono tutte strategie per far passare un messaggio ben preciso: la responsabilità non è di chi ha compiuto la violenza, almeno non del tutto.
Chi legge o guarda le notizie è estremamente e inconsciamente influenzato dal modo in cui queste sono riportate. Sentire, per esempio, un giornalista descrivere come una ragazzina vittima di stupro avesse bevuto e indossasse una gonna corta e dei tacchi alti, crea all’istante nella mente di chi recepisce la notizia una correlazione (logica e al tempo stesso paradossale) tra le due cose: se ti comporti in un certo modo, te la sei andata a cercare. Sentire invece giornalisti, ma anche parenti, amici, politici denunciare a priori il comportamento dell’aggressore aiuterebbe a comprendere di chi sia la reale responsabilità dell’atto in sé e a disimparare a dare la colpa alla vittima.
Il victim blaming nei casi di violenza domestica
Ovviamente il victim blaming non si verifica solamente nei casi di violenza sessuale, ma si estende alle molestie, alla violenza domestica e ai femminicidi. Spesso in tutte queste situazioni si ricerca tra i comportamenti della vittima una qualche giustificazione che avrebbe potuto scatenare l’ira del maltrattante, implicando nel migliore dei casi una responsabilità congiunta.
Si potrebbe dire che il victim blaming è portato all’estremo nel caso della violenza domestica, dove la società tende a voler individuare una responsabilità comune di marito e moglie nell’affrontare e risolvere qualsiasi problema ci sia all’interno della coppia: “l’amore non è bello se non è litigarello” e “le liti vanno risolte in privato, tra le mura domestiche” sono concetti molto comuni. Nei casi in cui la violenza viene invece effettivamente riconosciuta come tale, il fardello può essere comunque spostato sulla donna in quanto ha sopportato maltrattamenti fisici e psicologici. Alla frase “Lui la picchiava”, troppo spesso si sente rispondere “Ma perché lei non l’ha lasciato? Perché lei ha deciso di sopportare? Perché non se n’è andata prima che le cose peggiorassero?”. La risposta non dovrebbe essere questa, la risposta dovrebbe riguardare il comportamento di lui, non quello di lei. È chi agisce violenza a essere nel torto, a dover rispondere a un interrogatorio, a dover spiegare “Perché la picchiava?”.
Il victim blaming purtroppo può essere anche interiorizzato ed è una delle motivazioni che porta le vittime di violenza domestica a sminuire la situazione e quindi a esitare a parlare e denunciare. Autoconvincersi di una responsabilità congiunta o di stare esagerando a valutare la propria condizione è un tipico esempio di victim blaming che molto spesso le vittime di violenza domestica rivolgono a se stesse, proprio perché socialmente indotte a farlo.
Quali sono le conseguenze del victim blaming?
Oltre alla constatazione, forse banale, che sia sbagliato incolpare la parte offesa, la quale avrebbe piuttosto bisogno di assistenza e non di giudizi dannosi, il victim blaming porta a quella che viene chiamata vittimizzazione secondaria. Si tratta essenzialmente di far vivere alla vittima un’ulteriore esperienza di trauma, e quindi di ulteriore vittimizzazione appunto, non prestandole il sostegno necessario e, anzi, infierendo con domande inappropriate o con il mancato aiuto. Esistono ovviamente diverse sfumature di vittimizzazione secondaria: dai commenti inopportuni di conoscenti e amici, alla scorretta formulazione delle domande poste alla vittima dalle forze dell’ordine, fino all’organizzazione inadeguata di un processo in caso di violenza domestica.
Da un punto di vista giuridico, la direttiva europea 2012/29/UE, recepita in Italia con un decreto legge nel 2015, istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime dei reati: la direttiva invita a fornire alle vittime servizi di assistenza riservati e gratuiti (anche in mancanza di una denuncia), indirizzarle verso i centri adeguati e fornire sostegno anche psicologico ed emotivo. Tra gli obiettivi di questa legge c’è anche quello di diminuire il rischio di vittimizzazione secondaria, per cui si intendono “danni emotivi o psicologici scaturenti della denuncia del reato subito”.
È chiaro quindi come il victim blaming non sia un fenomeno fine a se stesso, ma che ha invece un chiaro impatto in primis sulla salute mentale della vittima, così come sui servizi di sostegno a lei dedicati e a cui ha diritto. Dobbiamo lavorare, come società, al fine di disimparare questo meccanismo tanto invisibile quanto nocivo per creare una realtà più comprensiva ed empatica.
Articolo interessante anche perché ha portato a galla un elemento che non conoscevo, ovvero la vittimizzazione secondaria che chiarisce ancora meglio perché spesso non si denuncia o non si va via.
Oltretutto di recente mi è capitato di guardare alcuni vecchi programmi e BAM: eccolo lì il victim blaming.
Il maresciallo Rocca che stanno replicando di recente: nell’episodio c’è un serial killer di giovani donne, il maresciallo vede la figlia in minigonna e le fa una scenata perché in giro c’è un maniaco. La figlia obietta che non è che uno si può chiudere in casa e non vivere più. Il padre ribatte “Sì ma uno non se le va a cercare! Sei d’accordo con me?!”. E la figlia zitta annuisce.
Stesso episodio: una ragazza viene uccisa, il fratello – giustamente- si dispera. ma nella sua disperazione commenta “lei non poteva fare come tutte le altre e stare a casa no!”. Se a rispondere ad un annuncio di lavoro (trappola del killer) per un’altra città sul giornale ci fosse stato un ragazzo, nessuno avrebbe commentato “non poteva starsene a casa come tutti?!”.
L’altro programma era… i PUFFI, ebbene sì! Puffetta prima di essere come la conoscono tutti era “brutta”, il grande Puffo con l’aiutodella magia la rende bella. Tutti i Puffi cominciano a litigare per ottenere la sua attenzione, Puffetta si dispiace di ciò e Grande Puffo le dice “E’ che adesso sei attraente e quindi devi fare attenzione.”
Quasi cadevo dalla sedia. Non è victim blaming esplicito ma in pratica dicono che la responsabilità degli altri che litigano è sua, SOLO perché è bella. E no, non c’era neanche la “giustificazione” di lei che fa la civetta: si era solo presentata e aveva salutato.