Eteronormatività.
Una parola di sedici lettere, che Word non riconosce come esistente ed evidenzia con una sottolineatura rossa a zigzag. “Eteronormatività” è infatti un termine che, sebbene usato ormai da svariati decenni soprattutto a livello accademico, trova nella lingua italiana un uso diffuso solo recentemente, grazie anche alla maggiore familiarizzazione con altri termini legati al contesto del femminismo intersezionale, come non-binarismo, post-colonialismo, violenza di genere, etc.
Stando a quanto dice Wikipedia, per “eteronormatività” si intende «la convinzione che l’eterosessualità sia l’unico orientamento sessuale o norma unica per la sessualità, e che le relazioni sessuali e coniugali siano appropriate solo tra persone di sesso opposto» – definizione che solo parzialmente possiamo ritenere completa ed esaustiva.
Infatti l’eteronormatività racchiude in sé non solo comportamenti, ma soprattutto pensieri umani preimpostati, ed è pertanto catalogabile come “sistema”. Metterla in discussione e sradicarla è di vitale importanza per una società che mira alla parità e alla libertà di espressione (e ora, mai come prima, si dispone dei mezzi per riuscirci).

Okay, ma quindi nello specifico di cosa stiamo parlando?
Dicevamo che l’eteronormatività è un sistema di comportamenti intrinsechi nelle società odierne (non parliamo infatti solo di quella occidentale), il cui scopo è quello di rendere (in alcuni casi potremmo dire “mantenere”) la norma quei comportamenti e aspettative sociali legate all’assunzione che l’eterosessualità – intesa come binario di ruoli, espressioni e aspettative – sia l’unico orientamento valido e legittimo.
Quel che ne deriva è una scala gerarchica alla cui vetta troviamo la rappresentazione dell’uomo cisgender eterosessuale bianco (proveniente da un paese coloniale) con espressione di genere “convenzionalmente maschile”, e al cui fondo troviamo invece chiunque non rientri in questi incasellamenti. Espressioni di genere non convenzionali, identità non binarie, orientamenti diversi da quello eterosessuale etc., sono quindi tutti ascrivibili come “inferiori”, e pertanto discriminati dalla maggioranza che vede il mondo attraverso le lenti dell’eteronormatività.
Questa scala gerarchica di potere, inoltre, porta alla perpetrazione di abusi, anche inconsapevoli, di chi è posto su uno scalino inferiore al primo, ma inevitabilmente superiore a quello subito successivo, con la conseguenza che nessuno ne è davvero escluso.
Con questo però non intendendo dire che tutti gli uomini bianchi cisgender eterosessuali siano fautori di eteronormatività, anzi.
L’eteronormatività si può riconoscere, ma non performare, sia l’individuo in questione un uomo bianco, una donna cisgender o un uomo di etnia non caucasica. Rompere le catene dell’eteronormatività significa infatti non anteporre un orientamento sessuale, un’identità di genere, una classe sociale etc., a un’altra, a prescindere dal punto di partenza di ogni individuo.
Come si manifesta l’eteronormatività?
L’eteronormatività, come dicevamo, ha svariate forme, tutte legate l’una all’altra da un comune filo conduttore. Queste forme spesso non vengono nemmeno prese in considerazione o, quando tenute da conto, minimizzate e tacciate comunque di esagerazione (e qui potrei citarvi tutti i vari “ne hai sempre una”, “e adesso cosa vi sete inventati”, “ma devi proprio sempre fare la femminista”, della situazione).

Fra queste forme, quelle che maggiormente influiscono sul mantenimento dell’eteronormatività sono:
Il binarismo di genere e i ruoli di genere patriarcali
Fra tutte le forme, questa è quella che maggiormente tiene in vita l’equilibrio di questo sistema.
Per binarismo di genere si intende il riconoscimento di sole due identità di genere (quella maschile e quella femminile) cui vengono attribuiti determinati e specifici ruoli ed espressioni.
Tutto ciò che è escluso da questo schema, sia essa un’espressione di genere non convenzionalmente ascrivibile a un genere specifico (basti pensare all’androginia) o un’identità non-binaria (ad esempio genderfluid), mina il mantenimento di un sistema che fa della superiorità di una categoria rispetto all’altra il suo punto focale, inasprendone di conseguenza le istanze.
Machismo, violenza contro diverse espressioni di genere, mancanza di supporto statale verso i genitori (di ambo i sessi) che vogliono rimanere a casa a curare i propri figli (perché come si sa “è una cosa da donne”, e le donne vengono mantenute dagli uomini), sono solo alcuni degli esempi in cui possiamo trovare forme di violenza eteronormata esercitata nei confini del binarismo di genere.

La monogamia (a.k.a. il matrimonio tradizionale)
Qui sento già un po’ di nasi storcersi e sento quindi di dover aprire una piccola parentesi.
Che la monogamia sia “figlia” di un sistema eteronormato in cui la donna sia subordinata all’uomo e in cui la coppia eterosessuale uomo-donna sia l’unica concepibile è un assunto imprescindibile.
Che tutte le coppie monogame uomo-donna siano fautrici di comportamenti eteronormati, invece, è una castroneria.
La monogamia, così come il poliamore, sono due forme di amore valide e molto più complesse di quel che si possa pensare e, fintanto che a viverle siano due o più persone che non cercano di prevaricare l’una sull’altra, possiamo lasciare lo spauracchio dell’eteronormatività sul comodino.
Quel che mi preme sottolineare è che per allontanare il concetto di monogamia come la sola forma di amore eticamente e socialmente valida, sia necessario imparare a conoscere e a legittimare tutte le forme di amore non monogamo.
D’altronde, poiché il concetto di monogamia eteronormata è declinato esclusivamente al caso del “matrimonio eterosessuale”, possiamo affermare che il femminismo intersezionale abbia già ottenuto una piccola rivincita grazie all’approvazione dei matrimoni same-sex in molti paesi del mondo, essendo questi per natura non celebrati fra due persone del sesso opposto.
Cosa c’entrano paesi coloniali con l’eteronormatività?
Ricordo ancora quando, verso i sedici anni, mi ritrovai una sera d’estate a guardare un documentario sugli standard di bellezza indiani, che portavano molte donne a spendere montagne di soldi in creme “sbiancanti”. Lo trovai personalmente assurdo (soprattutto per una questione di salute), anche se il concetto non mi risultò totalmente estraneo: in molti paesi asiatici una tonalità di pelle chiara è sinonimo di bellezza, perché significa che la persona in questione appartiene a un ceto sociale più elevato.

Quel che mi stupì nello specifico, quella volta, fu la spiegazione dell’origine di questa “mania”, nata dal fatto che ancora oggi, in molte regioni indiane, la pelle chiara sia sinonimo di “bellezza coloniale britannica”, considerata tale perché appunto colonizzante e quindi più potente.
Che gli standard di bellezza europei fossero quindi prevaricanti in tutti i paesi del mondo mi divenne chiaro come per magia (prima, ahimè, nemmeno ci pensavo, lo consideravo la norma), e da lì iniziai a cercare di capire quanto effettivamente gravi fossero i segni lasciati da questo sistema (paradossalmente, ho poi trovato una simile forma di gerarchizzazione degli standard di bellezza anche in Europa dove, nonostante lo status legato all’abbronzatura, chi è comunque chiaro di carnagione e dispone di un certo tipo di lineamenti venga spesso considerato a priori più bello).
Quel che ne è derivata è stata una consapevolezza sempre maggiore del fatto che chiunque rispecchi gli standard di bellezza occidentali venga privilegiato a dispetto di chi invece non lo faccia, sia da un punto di vista di rappresentazione (basti pensare alle questioni legate al white-washing o alla mancanza di diversity nel mondo della moda), che di sicurezza (un esempio qui può essere invece dato dal movimento Black Lives Matters).
Anche in questo caso non si intende affermare che chiunque rispecchi i canoni di bellezza occidentali e viva in un paese coloniale sia da tacciare come fautore di eteronormatività, bensì che tenere in considerazione questi aspetti sia vitale al raggiungimento di una società in cui tutti possano godere davvero delle stesse opportunità, senza sentire la necessità di uniformarsi a degli standard precisi per godere di maggior successo nella vita.
Quindi in pratica come la combattiamo questa eteronormatività?
Volendo riassumere definizioni e concetti vari appena esposti, possiamo quindi tracciare le linee base entro cui riuscire a combattere l’eteronormatività nella praticità di tutti i giorni.
Se imparare a essere buoni alleati è il primo passo verso la parità, esplorare quel che ci circonda imparando a porre/ci domande riguardo ciò che non capiamo è il secondo.
Alcune delle risposte riguardanti i pericoli, l’eredità e l’eradicazione dell’eteronormatività le potete trovare in questi libri (non tutti, purtroppo, si trovano anche in italiano):
- Halberstam, Female Masculinity.
- Judith Butler, L’alleanza dei corpi (edito in italiano da Nottetempo).
- Lorenzo Gasparrini, Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni. Ed. Settenove.
- Audre Lorde, Sister Outsider. In italiano, ed. Il dito e la luna, Sorella Outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde.
- Eve Kosofsky Sedgwick. Epistemology of the Closet.
- Michael Warner, The Trouble with Normal: Sex, Politics and the Ethics of Queer Life.
- Bacchetta, L. Fantone, Femminismi queer postcoloniali. Critiche transnazionali all’omofobia, all’islamofobia e all’omonazionalismo. Ed. Ombre Corte.
l’eterosessualità di per sè non è normativa, l’omofobia lo è
l’identità di genere non è solo culturale