Articolo di Benedetta Geddo
Ogni 11 ottobre la comunità LGBTQ+ festeggia l’importanza e il potere del gesto del coming out con il Coming Out Day, una ricorrenza nata negli Stati Uniti alla fine degli anni Ottanta e da lì diffusasi nel resto del mondo.
Immagino che tutt* sappiano cos’è un coming out, ma un ripassino non fa mai male: con l’espressione “coming out” si fa principalmente riferimento alla dichiarazione più o meno pubblica (nel senso che non si deve necessariamente annunciarlo dal balcone urbi et orbi ma basta anche dirlo tranquillamente a un* amic*) del proprio non essere eterosessuale e/o cisgender e quindi della propria appartenenza alla comunità queer. Viene fuori dalla locuzione inglese “coming out of the closet”, letteralmente “uscire dall’armadio”, dove l’armadio è una metafora per indicare che non si è ancora pront* a rivelarsi come non eterosessuale o non cisgender o entrambi.
Una cosa di cui mi sono resa conto negli anni è che ci possono essere tantissimi coming out nella vita di una persona queer: si è abituat* a pensare che “si faccia coming out” una volta e poi basta, un’idea che forse ci è un po’ arrivata da tutti quei film di Hollywood a tema LGBTQ+, dove il coming out del* protagonista è il punto d’arrivo della storia, uno spartiacque che segna la differenza tra la sua vita nell’armadio e quella “out and proud”. Ma, come suggerisce il nome stesso, essendo l’eterocisnormatività la norma i coming out possono essere infiniti, sia a livello di contenuto sia di tempo, e sono la prima ad averlo sperimentato.
Ho fatto coming out in primis con me stessa, un passo che direi essere stato abbastanza importante, e poi con le persone che conoscevo al liceo. All’università ho incontrato persone nuove e ho fatto coming out anche con loro, e poi in Erasmus, durante la magistrale all’estero, nei fanclub del mio gruppo musicale preferito sui social, con dei colleghi, e così via. In ogni ambiente nuovo in cui entro, c’è un nuovo coming out da fare, perché in ogni ambiente vengo “presunta” eterosessuale – e come me immagino ogni altra persona queer al mondo.
Va detto però che tutti questi coming out mi sono “pesati” poco, anzi, ero ben felice di far conoscere a queste nuove persone entrate nella mia vita un aspetto fondamentale di me ed ero sufficientemente sicura che la reazione sarebbe stata positiva. Ce n’è sempre stato uno, però, che mi pesava all’interno delle corde vocali e sulla punta della lingua e che ci ha impiegato dieci anni a venire fuori: il coming out con i miei genitori.
Forse anche questa ansia all’idea di dire “Mamma, papà, sono bisessuale” me l’hanno lasciata i film di Hollywood, dove il vero grande ostacolo, lo scalino finale, è sempre il coming out con i genitori – e dove spesso questo scalino finale non finisce benissimo, considerando quanto il cinema si nutra di dramma e dolore queer. Forse avevo un pizzico di paura all’idea che la notizia potesse sconvolgerli, nonostante sapessi e sappia benissimo che le loro idee sulla comunità LGBTQ+ sono positive e che ogni giorno cercano di imparare qualcosa di più e che mio padre mi avesse chiesto di accompagnarlo al Pride (piano che poi è andato a gambe all’aria a causa della pandemia, ma questa è un’altra storia). Forse ero terrorizzata all’idea che improvvisamente mi guardassero con occhi diversi, vedendo un’altra persona: una prospettiva, questa, che mi faceva cadere nella spirale dell’irrazionalità di fronte alla possibilità di perdere una relazione che è uno dei pilastri della mia esistenza.
Forse è stato un mix di tutti questi fattori, ma quello che è certo è che ci ho messo dieci anni a fare coming out con i miei genitori: ho realizzato di essere bisessuale a quindici anni e a loro l’ho detto a venticinque. E gliel’ho detto in un giorno qualunque, senza l’anticipazione di un grande annuncio, senza preparazione, senza essermi svegliata pensando che quella sarebbe stata la giornata giusta, senza neppure farli sedere sul divano, dicendo: “Vi devo parlare”.
Era un giorno di primavera normalissimo nel bel mezzo di un lockdown non proprio normale e io mi sono girata verso mia madre, mentre entrambe eravamo a prendere il sole sotto al portico, e le ho detto: “Mamma, ma tu lo sai, vero, che io sono bisessuale?”. Così, da un momento all’altro: le parole che avevo in gola sono scivolate fuori quasi avessero volontà propria. Penso di essermi addirittura stupita un pochino.
Ed è andata bene come in fondo sapevo che sarebbe andata, abbiamo fatto un bel piantino che non si nega mai a nessun* e siamo andate a impastare la pizza per la sera. Il volo vertiginoso che mi sembrava di dover fare da un trampolino altissimo come quello da cui si buttano i tuffatori olimpici si era rivelato una tranquilla discesa dallo scivolo di un parco acquatico.
Cos’è che voglio dire, quindi, alla fine di tutto questo racconto? Che non c’è un “tempo regolamentare” entro cui fare coming out altrimenti sei fuori dalla comunità LGBTQ+. Io ho sentito diverse volte la pressione a fare coming out, e mi sono sentita quasi come una queer “di serie B” perché non ero out con i miei genitori.
Ma ognun* ha i suoi tempi e i suoi modi e sono tutti da rispettare, soprattutto perché ognun* ha delle circostanze attorno che è fondamentale valutare: io sono stata fortunata e sono stata accolta a braccia aperte da quasi tutte le persone con le quali ho fatto coming out, ma non è così per chiunque. Non c’è niente di male nel “restare nell’armadio” per proteggere se stess*, se ad esempio si sa che si rischierebbero discriminazioni e abusi: l’identità e l’autodeterminazione di una persona LGBTQ+ che fa questa scelta per spirito e necessità di autoconservazione non sono meno valide.
Quel che è certo è che il coming out è uno dei gesti più intimi che una persona possa fare. Per questo l’outing è una forma particolarmente crudele di violenza: non solo butta una persona LGBTQ+ fuori dall’armadio quando magari non si sentiva pronta o non era in condizioni sicure per uscirne, ma priva anche di un momento di autodeterminazione fondamentale. È la battuta che più ho apprezzato dal film “Tuo, Simon”, uscito nel 2018: “Sono soltanto io quello che deve decidere quando, dove, come e chi lo deve sapere e come dirlo. Doveva essere la mia scelta!”.
Ecco, il coming out è una scelta. Una scelta personale, intima, unica. Una scelta che ha un valore e non merita di essere banalizzata (per dire, rivelare che l’ananas sulla pizza, alla fin fine, non è così male non è fare coming out). Una scelta che è giusto festeggiare in tutti i modi e le forme che assume per ogni membro della comunità LGBTQ+. Buon Coming Out Day a tutt*.