Articolo di Alessandra Vescio
Quello che stiamo vivendo è un periodo estenuante, complicato e difficile da affrontare, sotto diversi punti di vista. Una pandemia globale ha stravolto le nostre vite, accentuato le disparità sociali, gettato in una forte instabilità economica e costretto a vivere distanziat* e ad abituarci a tale distanza; ci ha fatto fare i conti con la morte, con la perdita delle persone care, con la paura della solitudine e l’incertezza del presente e del futuro. Non poteva che essere dedicata a questo scenario così psicologicamente fragile, fatto di timori e frustrazioni, la Giornata mondiale della salute mentale 2020 che, come ogni anno, si tiene il 10 ottobre.
Eppure, nonostante la maggiore consapevolezza sulla salute mentale che questo tempo ci sta chiedendo di avere, ancora oggi, quando si parla di benessere psicologico si assiste a un susseguirsi di pregiudizi e stereotipi, che portano a banalizzarne non solo la necessità ma anche il concetto stesso. Dall’esaltazione della positività a tutti i costi alla colpevolizzazione di chi sta affrontando un periodo mentalmente difficile e “non riesce a reagire”, lo stato psicologico è ancora troppo spesso connesso alla volontà e alla responsabilità del singolo. I disturbi mentali invece sono questioni complesse la cui origine va ricercata nel vissuto di ciascuno, nei traumi subiti, nelle relazioni familiari e personali, nelle condizioni sociali e, come spiega il Professor Claudio Mencacci, Medico Psichiatra, nei “fattori genetici e ambientali”. Attribuire la responsabilità della propria salute mentale alla singola persona perciò non fa altro che generare un processo di colpevolizzazione e/o vittimizzazione che non solo produce effetti negativi nelle relazioni con gli altri e con persone che soffrono di disturbi mentali, ma anche con se stessi, perché – se pensiamo che tutto dipenda dalla nostra volontà – ci sentiremo colpevoli, manchevoli e incapaci nei nostri personali momenti di difficoltà.
Secondo un’indagine quantitativa svolta dall’Istituto Piepoli per il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, nel 2018 solo 4 italiani su 10 andavano da uno psicologo e il 34% degli intervistati sosteneva che “La psicologia promette molto ma serve a poco”. Il motivo dietro questa ritrosia può derivare da numerosi fattori, come la difficoltà a trovare il supporto adatto a sé, ma anche la convinzione che un* psicolog* non possa risolvere concretamente un problema e dunque sia sostanzialmente inutile. La psicologia però è una scienza fatta di metodi e strumenti professionali che ha il compito di individuare pattern, aiutare a sciogliere blocchi e nodi, sbrogliare catene e circoli di pensieri e fornire chiavi di lettura che – in un momento di difficoltà e soprattutto senza gli strumenti di un* professionista – non saremmo in grado di rintracciare in autonomia. La psicologia non fa miracoli, non cambia radicalmente una persona e non risolve problemi che necessitano soluzioni concrete, ma può aiutare a compiere quelle azioni, a raggiungere certe soluzioni, a guardare se stess* e il mondo da una prospettiva diversa da quella a cui siamo abituat*. Non aiuta “semplicemente” a convivere con i problemi, ma offre gli strumenti adatti per percorrere un cammino di esplorazione e scoperta.
Per capire meglio l’importanza del benessere psicologico, ho intervistato la dottoressa Sara Colognesi, psicologa psicoterapeuta, con esperienza in ambito clinico, psicoterapeutico e aziendale.
Partiamo dalle base: in quali situazioni è importante o necessario iniziare un percorso di psicoterapia? E quali criteri bisognerebbe seguire per trovare il supporto adatto a sé?
La risposta semplice e un po’ scontata è quando c’è una situazione di sofferenza. Ma questa può avere un volto e caratteristiche molto diverse a seconda delle persone. Alcuni esempi potrebbero essere quando sentiamo di non riuscire a portare avanti la nostra vita con un certo equilibrio, quando ci rendiamo conto di non riuscire a superare i problemi che la vita ci pone con gli strumenti e le strategie che abbiamo sempre utilizzato. Quando ci rendiamo di conto di esserci ritrovat* ad andare in una direzione diversa da quella che sentiamo la più giusta per noi, quando non ci riconosciamo più e questo cambiamento non ci piace.
Per quanto riguarda come trovare il supporto adatto a sé, direi che non esiste una strada precisa da seguire ma ci sono alcune considerazioni da fare che ci possono aiutare a fare una scelta. Il fattore economico è sicuramente un primo gradino: sono in grado di accedere ai costi della terapia privata o è meglio che mi rivolga al servizio pubblico? Se ho un problema di disponibilità economica e, per qualsiasi motivo, il servizio pubblico non è un’opzione, posso valutare se esistono centri o professionist* vicino a me a che offrono servizi di psicoterapia etica o a prezzi calmierati. Valutato questo, è il momento di capire chi contattare. Se ho altr* professionist* sanitari di fiducia, posso chiedere a loro un’indicazione oppure, se me la sento e ho delle amicizie che hanno già fatto/stanno facendo questo tipo di percorso, anche loro possono essere una fonte di informazioni. Ovviamente poi c’è il calderone di internet e dei social media. Sapendo se desidero fare un percorso in presenza oppure online, posso orientarmi verso professionist* disponibili verso il tipo di setting che preferisco e verifico se si occupano del campo di salute mentale per il quale sto cercando aiuto. Una parte molto importante la gioca il contattare la persona o le persone che mi sembrano adatte a quello che sto cercando, chiedendo informazioni e disponibilità. La vera prova del nove è iniziare il percorso con i primi colloqui: lì si comprende se davvero si può lavorare bene insieme. A volte si trova il/la professionista giust* al primo colpo, a volte è necessario fare qualche tentativo.
Molte persone hanno ancora paura di iniziare o ammettere di stare seguendo un percorso di psicoterapia, per timore del giudizio altrui o perché associano la richiesta di un supporto psicologico a una condizione di debolezza. Perché secondo te esiste ancora questo tabù? Cosa possiamo fare per smantellarlo?
Credo ci siano molti fattori che contribuiscono a tenere vivi questi tabù anche se, devo dire, sto vedendo tanti segnali in senso positivo. Un fattore importante di mantenimento del tabù credo sia la narrazione tossica che ci dice che la salute è solo una responsabilità individuale e quindi se non stiamo bene, in fondo, un po’ è colpa nostra. Niente di più sbagliato, ma purtroppo è una narrazione subdola e ancora serpeggiante. Se la applichiamo, poi, a problematiche psicologiche che per loro natura sono “invisibili”, sulle quali siamo anche abituat* a vedere delle narrazioni mediatiche (film, serie tv, notizie giornalistiche) semplicistiche e stereotipate, il tabù prende forza. Lo smantellamento di questo tabù è uno sforzo collettivo: in prima linea ci sono le istituzioni e la politica che dovrebbero smettere di relegare la salute mentale a una iniziativa personale e integrarla davvero nel nostro sistema sanitario, scolastico e lavorativo. Poi ci siamo noi professionist* della salute mentale che possiamo contribuire facendo informazione e divulgando tutto ciò che ha a che fare con la salute mentale in maniera inclusiva e non giudicante, normalizzando i percorsi psicologici e psichiatrici. E, infine ma non per importanza, una grande risorsa per lo smantellamento di questo tabù lo fanno gli/le attivist* e tutte le persone che hanno scelto di parlare apertamente del proprio rapporto con la salute mentale.
Secondo gli ultimi dati raccolti dal Sistema informativo per la salute mentale, in Italia sono molte di più le donne a soffrire di depressione, mentre gli uomini vengono maggiormente colpiti da disturbi di personalità, schizofrenia, abuso di sostanze. Inoltre sappiamo anche che nel nostro Paese i suicidi vengono commessi soprattutto dagli uomini. Cosa ci indica, secondo te, questo quadro? Esiste una correlazione tra stereotipi di genere e salute mentale?
Il quadro indica innanzitutto che i problemi di salute mentale esistono, sono diffusi, non sono marginali e, quindi, abbiamo bisogno di dedicare maggiori risorse nella cura e nella prevenzione. Il sessismo, gli stereotipi di genere, il rigido binarismo di genere della nostra cultura agiscono a più livelli in questo quadro. Influenzano chi accede alle cure, che tipo di cure verranno proposte e quando. Pensiamo, per esempio, che a causa di un bias di genere le donne e le persone assegnate femmine alla nascita neurodiverse o neuropeculiar arrivano molto tardi, spesso da adulte, a sapere, per esempio, di essere sullo spettro autistico. Questo ha ovviamente un impatto profondo sulla loro salute mentale perché passano una vita a sentirsi dire di essere sbagliate, spesso vivendo diversi traumi in relazione a questo, quando in realtà si tratta solo di una modalità diversa di fare esperienza del mondo. Allo stesso modo, un ragazzo o un uomo che senta la pressione di conformarsi a un certo tipo di mascolinità potrebbe non riuscire a cercare aiuto proprio a causa degli stereotipi di genere, magari uniti allo stigma rispetto all’aiuto psicologico. Abbiamo tanto lavoro da fare in questo senso.
Sul tuo account Instagram, che usi per fare divulgazione, hai parlato del rapporto tra giustizia sociale e salute mentale: ci spieghi cosa vuol dire e qual è il confine tra responsabilità individuale e collettiva? Fare parte di una o più categorie marginalizzate può avere delle ripercussioni sulla salute mentale di una persona?
Fare parte di una o più categorie marginalizzate significa essere espost* quotidianamente a una serie di fattori stressanti che sappiamo avere un impatto sulla salute mentale delle persone. Situazioni sociali difficili causano stress cronico, stress che si accumula nel tempo, con conseguenti deficit di salute a lungo termine, un fenomeno osservato nell’ambito del minority stress. Un altro fattore sono le determinanti sociali della salute mentale, che sono molteplici fattori che, interagendo tra loro, influenzano i livelli individuali e collettivi di salute mentale e di benessere. Il Centro Regionale di Documentazione per la Promozione della Salute del Piemonte ha tradotto nel 2017 un documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in cui si legge: “Una buona salute mentale è parte integrante della salute e del benessere. La salute mentale di un individuo e la maggior parte dei disturbi mentali sono modellati dai vari contesti sociali, economici e fisici attraversati nelle differenti fasi della vita. I fattori di rischio comuni alla maggior parte dei disturbi mentali sono strettamente connessi alle disuguaglianze sociali, per cui ad una maggiore disuguaglianza corrisponde un aumento di disuguaglianza nell’esposizione al rischio”. Occuparci di salute mentale implica, necessariamente, lavorare per smantellare le disuguaglianze sociali.
Per quanto essenziale, la psicoterapia non è però accessibile per tutti. Hai qualche suggerimento o qualche indicazione per chi ha bisogno di supporto psicologico ma non ha la possibilità economica per farlo? Esistono enti e realtà valide e gratuite che ti sentiresti di consigliare?
Questo è un problema enorme, sul quale a breve termine faccio fatica a vedere una soluzione. La soluzione ideale sarebbe, chiaramente, investire risorse rendendo davvero accessibili i servizi di salute mentale in tutto il territorio e a vari livelli. In pratica, assumendo in grandi numeri psicolog*, psichiatr*, terapist* della riabilitazione psichiatrica e terapist* occupazionali o, almeno, studiando delle soluzioni di vera convenzione delle prestazioni dei/le professionist* privat* in modo che i/le pazienti possano accedere alle cure, e dall’altra parte i/le professionist* possano lavorare in tranquillità senza doversi chiedere come fare a pagare le bollette e le tasse o cosa succederà alla scadenza del proprio incarico libero professionale di 12 mesi. Ricordiamoci comunque che i servizi di salute mentali pubblici esistono e funzionano, così come esistono e funzionano varie iniziative di psicoterapia etica. Non mi sento di dare consigli specifici, perché non le conosco tutte e rischierei di conseguenza di dare informazioni parziali e incomplete.
Il World Mental Health Day 2020 è dedicato alle conseguenze psicologiche provocate dalla pandemia. Quali sono, secondo te, le maggiori ripercussioni che stiamo vivendo e come possiamo affrontarle?
Da dove comincio? Di sicuro non riuscirò in questa risposta a fare una fotografia delle ripercussioni di questa pandemia. Anche noi professionist* della salute mentale siamo coinvolt* come tutt* in questa esperienza collettiva e, quindi, stiamo imparando a conoscere e navigare questa nuovo mondo mano a mano che ne facciamo esperienza insieme. Credo che una delle esperienze più comuni sia quella legata al senso di profonda incertezza e di necessità di adattamento costante che ci accompagna da diversi mesi. E gli esseri viventi di questo pianeta non amano l’incertezza. Ognuno di noi la gestisce in maniera più o meno funzionale, e non dovrebbe stupirci se da fine febbraio a questa parte abbiamo vissuto momenti altalenanti, riuscendo ad affrontare con più serenità certe fasi e con molte più difficoltà altre. Per alcune persone, questo è significato tornare a utilizzare vecchie modalità di gestione dello stress che si pensavano superate. Non esiste un manuale su come comportarsi in queste circostanze e potrebbe essere una buona occasione per esercitare la nostra capacità di essere compassionevoli con noi stess*.
Cos’è, dunque, e come ci si prende cura della propria salute mentale?
La salute mentale (così come quella fisica) è un diritto e non un dovere, e la psicoterapia o la consulenza psicologica non sono l’unico modo di prendersene cura. È, appunto, un diritto che possiamo esercitare e al quale dovremmo avere equo accesso. L’idea di salute mentale è spesso promossa come qualcosa di solido, quasi granitico e inscalfibile, mentre la mia esperienza personale e professionale raccontano qualcosa di diverso. Ho l’impressione che quando si invita a prendersi cura della propria salute mentale passi il messaggio che ci sia solo un modo per farlo, e che implichi dover stare sempre bene, senza avere cedimenti o momenti di ricadute, e questa idea fa sentire sbagliate tante persone, anche perché è molto lontana dalla realtà. Forse ci rassicura pensare che il benessere sia qualcosa di stabile e delineato. A me, rifacendomi a una meditazione tradizionale della mindfulness, piace immaginarlo come un equilibrio instabile che, probabilmente, è un’immagine che spaventa un pochino di più. Eppure accogliere la natura mutabile della nostra esperienza umana ci apre anche alla possibilità di darci la chance di guardarla per ciò che è, giudicandola (e giudicandoci) un po’ meno.