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Subiamo molta più violenza sessuale di quello che pensiamo
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Subiamo molta più violenza sessuale di quello che pensiamo

Articolo di Elena Gazzari

TW: violenza sessuale, linguaggio esplicito

Subiamo molta più violenza sessuale di quello che pensiamo. L’accostamento della parola violenza all’aggettivo sessuale rimanda immediatamente a un immaginario cupo ed estremamente esplicito in cui la libertà di una persona viene violata in modi brutali. In altre parole, riconduciamo questa idea della violenza sempre e solo ad uno stupro. Il verbo stuprare poi, consiste in un insieme di lettere paurosamente scomodo da scrivere e quasi impossibile da pronunciare. Ha un suono duro e che stride con la sensazione di proprietà e intoccabilità che sentiamo appartenere ai nostri corpi.

Bisogna riflettere sul consenso, ovvero su ciò che dovrebbe essere l’unica discriminante affinché avvenga una qualsiasi interazione tra due o più persone; che questa appartenga alla sfera sessuale, emotiva o verbale. Stando alla teoria, la mancanza di consenso dovrebbe dissuadere qualsiasi tentativo di approccio nei confronti dell’altra persona; pena la sua trasformazione in atto violento e recriminabile. Spesso, però, il consenso risulta un’arma di difesa troppo debole in proporzione alla brutalità dell’azione che si può subire. E il perché si parli di armi, forza e difesa quando si tratta di sesso, come se stessimo per andare in guerra, ancora non è chiaro. La cultura dello stupro, che vuole che sia l’opinione maschilista patriarcale a decidere se e come lo stupro esiste, spesso crea confini molto labili anche per ciò che riguarda la natura del consenso. Da qui la normalizzazione del delitto di genere, la colpevolizzazione della vittima, la difesa dello stupratore e altri orrori discorrendo.

Il vocabolario femminista negli ultimi anni si è arricchito meravigliosamente e ha dato vita una realtà lessicale del tutto nuova con cui nominare diverse forme di oppressione. Dunque, è stata messa nero su bianco l’esigenza di trovare una terminologia in grado di spiegare in che modo si riesca a perpetrare la violenza di genere. Fino a non molto tempo fa, infatti, non avevamo idea di che cosa fossero la rape culture, il victim blaming, lo stealthing, il catcalling e così via. Tuttavia, risulta ancora molto difficile dare un nome alle situazioni più sfumate e complesse, ovvero a quegli episodi in cui l’obbligo e il consenso sono entrambi presenti e l’uno non esclude necessariamente l’altro.

Per chiarire questo passaggio, è bene specificare che il consenso è uno solo e se non lo si rispetta è perché si decide di non farlo. Allo stesso tempo, però, abbiamo un’idea distorta di consenso.  Il consenso deve essere consapevole, entusiasta e partecipe, ma non è ciò che ci viene insegnato. E così, per l’idea che ne apprendiamo e gli attribuiamo, l’essere consenziente può implicare anche una coercizione fisica, emotiva o psicologica che in quel momento la vittima non riconosce come tale. C’è una differenza, infatti, tra agire come consenziente (per l’idea che di consenso si ha) e sentirsi davvero consenziente. Questo perché si può acconsentire a un’attività sessuale ma subire comunque una violenza…e realizzarlo molto dopo, o non realizzarlo affatto. Nell’ambito sessuale, a volte, ci sembra di fare una scelta libera, che lo è però solo in apparenza, perché in realtà è dettata da un obbligo. Si tratta, dunque, di un falso consenso, indotto e forzato.

Che poi, ripensandoci, spesso quando sono andatǝ a letto con quellǝ non mi è piaciuto per niente
Nel senso che non hai provato piacere?
No, nel senso che poi ho dovuto sciacquare la sensazione di disagio con una doccia.

Ho assistito a questa conversazione un’infinità di volte. Riporto esempi di relazioni eterosessuali raccontati da delle donne perché queste sono le esperienze personali con cui sono entrata in contatto, ma ciò non significa ovviamente che non possano riguardare altre persone e altri rapporti.

  • Sentirmi obbligata ad andare a letto con l’amico con cui ho un flirt perché ormai mi sono ritrovata a casa sua.
  • Appartarmi con il ragazzo del mare e non avere il tempo di realizzare che mentre stiamo facendo petting siamo già alla penetrazione.
  • “Con il preservativo non riesco e a tutte le mie ex andava bene”, quindi se dico di no gli piacerò meno delle altre.
  • Rassegnarmi all’idea di dover fare sesso con il mio ragazzo perché non farlo sarebbe sbagliato, lui ci rimarrebbe male.
  • Quando ho deciso di fare quella cosa che sapevo non mi avrebbe messo a mio agio, ma lui insisteva e l’ho fatta controvoglia.

Abbiamo “scelto” di farlo e abbiamo detto di sì. O, talvolta, non abbiamo detto di no. Ma ci siamo sentitǝ consenzienti? Perché una volta tornatǝ a casa abbiamo fatto una doccia lunga delle ore? Perché è stato necessario provare a sciacquare via una colpa e lavare la parte sporca di noi stessǝ, ovvero quella che ha permesso che ciò accadesse? Perché, anche a distanza di anni, il solo ricordo di questi episodi ci mette i brividi? La situazione poi si complica ulteriormente, poiché se ripensiamo a queste esperienze non ricordiamo uno sconosciuto che ci tira per i capelli e ci violenta per strada, ma pensiamo ai nostri fidanzati, amici e conoscenti. Qui arriva il momento più difficile: lui mi ha violentato? Una persona che mi voleva bene e che ancora oggi rappresenta un bel ricordo mi ha fatto questo? E questo cos’è? Come si chiama?

Non siamo survivors, non siamo superstiti di un delitto di genere, né loro sono degli stupratori, ma diciamo ad alta voce che quella volta non eravamo consenzienti. La verità è che probabilmente, pur non essendo dellǝ sopravvissutǝ, siamo statǝ inseritǝ nella dinamica dello stupro: perché non c’è consenso laddove il sesso è usato, consapevolmente o meno, come strumento di potere e di manipolazione. Soprattutto perché ci siamo sentitǝ sporchǝ e il ricordo è inaccettabile. Il percorso di riconoscimento della violenza subita è estremamente doloroso e sfinente, perché inevitabilmente ci fa mettere in discussione i rapporti che abbiamo con le altre persone e soprattutto con noi stessǝ. La verità è che in primis dovrebbe essere messo in discussione il sistema che ci obbliga a subire, tacere e giustificare i figli del sistema stesso.

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Un pilastro della rape culture, infatti, è proprio il tentativo di sminuire la violenza subita per proteggere chi violenta, e questo porta la vittima a non riconoscersi come tale e a colpevolizzarsi. Ridimensioniamo costantemente i traumi subiti perché sono dolorosi da accettare e perché ci hanno insegnato a fare così. Scopriamo, quindi, che esiste una zona grigia in cui non ci sentiamo vittime di violenza, però abbiamo fatto “spontaneamente” quello che ci veniva chiesto con insistenza: questo è un paradosso pericoloso. È importante specificare, inoltre, che non si tratta solo di partner occasionali o decennali che obbligano, ma è anche componente del sistema di cui facciamo tuttǝ parte, un sistema che impone l’idea del sesso sempre disinibito e performante, che prescrive standard irraggiungibili e modelli che non appartengono a nessunǝ.

A prescindere dall’educazione sessuale ricevuta e dall’emisfero in cui viviamo, qualsiasi persona che si è trovata a subire una situazione simile sa che c’è qualcosa di sbagliato e di profondamente ingiusto. Il problema è che, spesso, una vittima è priva degli strumenti per capire di essere tale. Questo non svilisce la sofferenza né sminuisce il dolore, ma, al contrario, sottolinea l’esigenza di dover avere delle risposte, pur non trovando delle definizioni esaustive. Ci siamo fattǝ crescere dalla cultura dello stupro, ma non siamo natǝ nella e per la cultura dello stupro.

Fino a quando non abbiamo trovato nella riflessione femminista le risposte che ci venivano negate, abbiamo custodito le nostre esperienze traumatiche in segreto e le abbiamo normalizzate. Solo dopo aver trovato conferma in un’esperienza di condivisione con altre vittime abbiamo iniziato a contestare il sistema di coercizioni liberticide insieme a tutte le sue sfumature difficili da nominare, anche quelle che riguardano le situazioni protette e felici. Tutto questo perché se il patriarcato costringe a chiederci “cosa ho fatto di sbagliato?” il femminismo invece vuole che la domanda sia “cosa c’era di sbagliato?”.

Dallo stupro alla mancanza di consenso c’è un mare da esplorare che è la nostra vita quotidiana, in cui non ci è mai stato insegnato a dire di no, ad ascoltarci e a sapere riconoscere gli innumerevoli segnali che ci dà il nostro corpo – che è nato libero. Rispetto all’esigenza di cambiare il sistema in cui viviamo, non esistono violenze più o meno gravi. Se subiamo una violenza dobbiamo iniziare e pensarci come vittime e porci al centro di una narrativa culturale che vuole relegarci silenti e passive al margine. Infine, teniamo a mente che dire di SÌ deve essere un’esperienza rilassata, positiva e felice, la stessa importanza e peso deve valere per il NO.

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