Che affetto buffo, la vergogna. Taciuta, misconosciuta, nascosta, anche sottovalutata, mi viene da dire. Esattamente come chi la indossa.
Indossare, effettivamente, è il primo verbo che mi torna in mente ogni volta in cui ci penso. Sarà che a Napoli si dice “mi metto vergogna” o anche “mi fanno mettere vergogna”. È mia, è dell’altrə, non è molto chiaro. Fatto sta che la si indossa con imbarazzo, arrossendo, stando scomodə. La si indossa come un abito dentro cui pelle e tessuto si con-fondono.
È ingombrante, eppure così invisibile. Qualcuno la chiama la Cenerentola degli affetti.
Sembra quasi manchi di un’identità propria, dato che molto spesso viene confusa con uno stretto – e altrettanto scomodo – parente: il senso di colpa. Effettivamente, di cose in comune ne hanno parecchie: sono affetti complessi, culturali, intersoggettivi, emotivi e cognitivi allo stesso tempo.
Riflettendoci, però, le pene che porta con sé la vergogna sono più infime di quelle relative al senso di colpa. Questo potremmo ricollegarlo al fatto che la vergogna implica una s-valutazione della persona nella sua interezza, mentre il senso di colpa è legato a dei comportamenti specifici, magari ritenuti immorali o incoerenti o semplicemente contrari alla cultura di appartenenza.
Sperimentare il senso di vergogna fa sentire totalmente impotenti, disintegratə, desiderosə di fuggire o di nascondersi; mentre il senso di colpa è un affetto più pratico, in cui domina il desiderio di espiazione dei propri peccati, la ricerca spasmodica di perdono attraverso gesti concreti che possano compensare il danno. È come se il senso di colpa, nonostante tutto, preservasse l’interezza del soggetto che lo sperimenta, ponendolo in una posizione attiva; invece, la vergogna porta a fondo il Sé, lasciandolo in uno stato di passività e in un loop di auto-percezione negativa.
Per quanto possa non sembrare così, la vergogna è assolutamente un affetto relazionale. È vero che le paturnie e lo struggimento avvengono per lo più in solitudine, ma ciò non significa che non si tenga in mente l’altro, anche solo simbolicamente. Infatti, l’Altro rappresenta proprio il centro attorno al quale ruotano tutti i pezzi del Sé che si disintegrano, macchiandosi di vergogna, in un vortice dominato dalla paura del rifiuto e dell’abbandono a causa del proprio essere indegnə.
Il paradosso è che, una volta radicatasi, l’esperienza di vergogna non ha più bisogno dell’Altro, il cui sguardo è come diventasse una parte di sé interiorizzata e capace di autoalimentarsi. È uno sguardo che va a scovare i limiti, l’incompletezza, il divario tra l’ideale di sé e chi si è realmente. È come se si rimanesse incastrati tra il desiderio di voler scomparire e quello di essere riconosciuti a ogni costo, anche se questo significa diventare come l’altro vorrebbe che fossimo.
Questo succede anche perché la vergogna è un affetto arcaico, molto più antico della colpa, e affonda le radici nel modo in cui, fin da piccolə, ci si è sentitə in relazione ai propri bisogni e desideri, quanto e in che modo questi siano stati o meno accolti dalle persone che si sono prese cura di noi.
Ma tutto questo cosa ha a che fare con la violenza?
Per quanto paradossale possa sembrare, la vergogna può giocare un ruolo salvifico in situazioni traumatiche di questo tipo perché costituisce un tentativo, un mezzo attraverso cui continuare ad esistere come soggetti.
Ma procediamo con ordine.
Quando si affronta un evento traumatico come può essere un episodio di violenza o una relazione violenta, non è semplice riuscire a rappresentarlo a se stessə mentalmente. Spesso all’evento si accompagna un crollo del processo di costruzione di significati, in una cornice di profonda confusione e destabilizzazione generale, in cui è molto complesso individuare ciò che è accaduto e dargli nome.
Una questione di genere
Proprio in virtù dell’importanza legata al dare nome, da questo punto in poi lo schwa avrà un genere preciso, per rispecchiare in maniera netta le dinamiche di violenza maschile sul femminile. Perché, sì, la violenza è una questione di genere, così come lo è la vergogna.
Per questo, per trovare un appiglio e provare a sopravvivere alla sensazione di essere inermi nelle mani dell’altro, la vittima finisce per identificarsi con l’aggressore e per appropriarsi di un senso di colpa che non le appartiene, fino a credere di essere responsabile di ciò che è successo. Se, poi, contestualizziamo questi processi psichici all’ambiente socioculturale in cui siamo immersə, così pressante e colpevolizzante per le donne (“Te la sei cercata!”), il quadro non fa che acuirsi e diventare ancor più complesso.
Essere vittima di violenza – non necessariamente fisica, sia chiaro – pone la donna in una condizione di nudità tale da sentirsi paralizzata, annichilita, senza più punti di riferimento. Questa sensazione globale di confusione porta a sperimentare una vergogna così forte da suggerirle di aggrapparsi a qualsiasi cosa possa evitarle una disintegrazione psichica totale, anche se quest’àncora è rappresentata dal proprio aggressore. È qui che vergogna e trauma si incontrano e si scontrano, provando a trovare un compromesso tra la spinta all’individuazione e il desiderio di rimanere aggrappati a quella che sembra essere l’unica certezza relazionale.
È anche perché tutto questo avviene, chiaramente, in un contesto in cui la donna sente di non avere via di fuga né appigli perché, tendenzialmente, il terreno della violenza è stato già precedentemente – inconsciamente o meno – preparato, in un clima di isolamento infallibile, in cui l’uno ha solo l’altra, in una bolla di vetro e di manipolazione.
La violenza concretizza brutalmente le fantasie alla base dell’affetto della vergogna: ritrovarsi in uno stato di dipendenza, nude, nelle mani dell’altro che ha letteralmente potere di vita o di morte. E questo terrore di annientamento potrebbe spiegare la difficoltà a sottrarsi alle situazioni di dipendenza e a fare passi incisivi nella relazione.
Insieme alla vergogna, però, si fa strada anche il senso di colpa, trasformando il senso di impotenza in un’illusoria percezione di controllo, in cui la donna non è più vittima in uno stato di passiva accettazione, ma è parte attiva e partecipe della situazione violenta, alla ricerca delle cause di quest’ultima e di strade attraverso cui discolpare il partner e mantenere il legame.
Per quanto possa sembrare disfunzionale per la fuoriuscita della donna dalla situazione violenta, la vergogna le permette di mantenersi psichicamente in vita, in quanto rappresenta il primo segnale di soggettivazione. È un sentimento sociale, al limite tra l’intra- e l’intersoggettivo.
Inoltre, la vergogna può essere sperimentata su due livelli diversi: su un livello, può essere un sentimento tossico che scatena rabbia verso se stesse e ritiro; sull’altro, può essere un sentimento umanizzante che incrementa invece la flessibilità, acuisce l’empatia e va di pari passo all’accettazione. È attraverso questa umanizzazione che è possibile ritornare a sperimentarsi all’interno di un contesto relazionale in cui è possibile ri-conoscersi e da cui e su cui cominciare a lavorare.
Riconoscere la vergogna non solo come sintomo può rappresentare un tentativo di restaurare il legame con il mondo esterno, non più percepito come esclusivamente diffamatorio, ma pronto ad accogliere.
È importante, però, sottolineare che ogni donna ha i suoi tempi per dare nome, per usare la vergogna e salvarsi, attraverso la parola e l’ascolto di una rete di supporto.
Inizialmente, verrà un tempo detto “dell’inibizione”, in cui la vergogna sarà così prepotente da vergognarsi di se stessa e costringere a tacere. Non è la fine e non è sbagliato, serve solo avere pazienza.
Quando, prestando attenzione, ascolto e aprendo le braccia, si comincia a dare nome all’affetto che si prova, si passa al “tempo dello sguardo” in cui si può riconoscere la vergogna e tornare pian piano a percepirsi come soggetti, contestualizzando l’esperienza traumatica e collocandola nello spazio e nel tempo. Infine, arriverà il “tempo dell’identità”, in cui l’esperienza traumatica entrerà a far parte della storia della donna.
È fondamentale che la vergogna emerga, che venga riconosciuta ed elaborata, limitandone i tentativi di disintegrazione del sé e ricostruendo ciò che è successo.
Nessuna può fare tutto questo da sola, ma, allo stesso tempo, nessuna può farlo per lei.
È importante restituire voce a quella vergogna e ridarle dignità, ritrovare la donna dietro la vittima, la storia dietro il trauma. È un percorso mai solitario, un processo di autodeterminazione per recuperare la possibilità di scelta e restituire le colpe ai legittimi proprietari.