“Esageratə!! Mia nonna ha fatto 7 figli e non si è mai lamentata!”. Questa frase, che in apparenza sembra innocua, fomenta la visione delle donne e delle persone con utero come naturalmente portate alla cura, alla maternità. È nell’associazione dei corpi con utero alla vocazione materna che si radicano e prendono vita le diverse forme di violenza e oppressione. Nel sentire comune, avere un utero viene associato al desiderio ‘naturale’ di generare vita e prendersene cura in qualunque condizione, anche dopo 20 ore di travaglio e ovviamente senza lamentele.
Nell’idea che le nostre nonne non si lamentassero si nasconde poi un altro pericoloso stereotipo secondo cui il bisogno di ritagliarsi spazi propri e tempi di riposo nel percorso materno o genitoriale siano una novità recente, portata dalle ‘femministe cattive’. Questo modo di pensare cancella riflessioni di decenni o anche – incredibile a dirlo! – di centinaia di anni. È così che i nostri bisogni primari diventano futili capricci, e la violenza si espande sui nostri corpi e le nostre menti.
Le donne hanno da sempre cercato uno spazio fuori dal patriarcato e dalla maternità forzata che segue certe regole. Guardare a questi racconti è un modo per dare uno schiaffo al patriarcato che vuole toglierci anche la storia e la narrazione, come nota la filosofa Adriana Cavarero. La capacità di generare una vita, ma anche il rifiuto che la maternità sia totale e che la sua idealizzazione sia imposta dal patriarcato sono parte della storia di chi ha un utero ed è importante riappropriarsene.
Sin da quando sono riuscite a impugnare una penna e a rivolgersi ad un pubblico, già nel Rinascimento, le donne raccontano quanto fosse difficoltoso conciliare la maternità con altri doveri. Possiamo solo immaginare cosa significasse essere costantemente incinte e vedere spesso le donne intorno morire di parto insieme alle loro creature. Nonostante i passi avanti della medicina, purtroppo, non si tratta di scenari lontani da noi, anche se certamente meno frequenti. Riappropriarsi della lunga storia delle istanze contro la maternità forzata che obbedisce ai precetti del patriarcato è importante per continuare questa lotta dandole una prospettiva storica.
Per questo schiaffo metaforico al patriarcato che ci vuole madri perfette, vorrei farvi conoscere due donne: Moderata Fonte e Isabella D’Este. Moderata Fonte è una bambina prodigio dalla memoria straordinaria e Isabella D’Este una donna di potere. Certamente sono state due persone privilegiate, ma leggere di due donne che non le hanno mandate a dire è sempre un piacere e un modo per riappropriarci della nostra storia e per rispondere a chi sostiene che la maternità è innata nelle donne e non ci dovremmo lamentare.
Moderata Fonte
Anche per una bambina prodigio diventare scrittrice a metà Cinquecento non è semplice, ma Fonte con il supporto della famiglia riesce a scrivere un poema cavalleresco (proprio come Ariosto!): il Floridoro. Suona strano purtroppo, ma nella storia della nostra letteratura ci sono tante donne; non le abbiamo mai incontrate a scuola perché i critici letterari (qui il maschile è voluto) le hanno scartate, mai ritenute all’altezza degli uomini né in vita né secoli dopo. Fonte stessa, ne Il Merito delle Donne, deve difendersi dai costanti attacchi alle donne, ritenute inferiori. La scrittrice interviene quindi nella querelle de femme in cui pensatori (maschi per la maggioranza) disquisiscono sul valore umano delle donne – anche questo uno scenario purtroppo familiare. Per tragica ironia della sorte, Fonte scrive questo dialogo contro gli attacchi alle donne poco prima di morire di parto. Procreare per le donne dell’epoca (come lo è spesso anche oggi) era un dovere a cui era impossibile sottrarsi, nonostante spesso si rischiasse la vita nel partorire. Per Fonte e le sue personagge, l’unico modo per sottrarsi ai doveri di donna è la vedovanza che all’epoca dava una certa libertà.
Isabella d’Este
Vissuta a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento è una donna che viaggia e discute di affari e di letteratura. Ma anche per lei nascere femmina non deve essere stato semplice. Tiene nota della sua corrispondenza e grazie a questa possiamo ricostruire la vita di una donna di potere come la sua. Per Isabella D’Este la maternità è un gravoso compito da assolvere. È interessante notare che all’epoca e fino a poco tempo fa, allattare non era considerato decoroso per una donna delle classi agiate – riferimento che si può trovare ancora in Una donna (1904) di Sibilla Aleramo – e per questo era necessario trovare una balia. Oggi invece c’è l’aspettativa contraria: bisogna allattare immediatamente e bisogna farlo per il periodo corretto, né poco, né troppo. In entrambi casi ci troviamo di fronte ad imposizioni del patriarcato che non rispettano le singole esigenze genitoriali.
L’imposizione di uno standard di maternità continua a generare forme di violenza e sensi di colpa. La maternità imposta è violenza e opera in modi diversi dalla violenza indiretta, agendo nell’aspettativa culturale della maternità perfetta, del corpo che deve piegarsi a questo compito annullando la propria identità. Ci sono poi le forme di violenza diretta che prendono vita sia nella violenza ostetrica che in tutti quei provvedimenti volti a impedire l’accesso all’aborto legale e sicuro. Queste forme di violenza stanno diventando sempre più popolari e viaggiano parallelamente: da una parte i media e le persone intorno a noi che ci dicono che dobbiamo essere madri e lo dobbiamo essere seguendo gli standard del patriarcato, dall’altro si legifera per il controllo delle persone con utero rendendo l’aborto illegale, come sta avvenendo in alcune aree degli Stati Uniti e anche in Italia dove si nega l’accesso a questa pratica.
In questo contesto di controllo dei corpi, le persone non binarie e gli uomini trans rimangono invisibili, vittime della violenza dell’essere cancellatə. Non ho purtroppo incontrato nessuna persona non binaria o uomo trans nella mia ricerca, ma ciò non esclude che ci siano state narrazioni che possono essere studiate in una prospettiva queer e rivelare varianti di genere. La lotta contro il controllo dei corpi deve unire, non dividere. Quando la maternità imposta in tutte le sue forme incede come un’ombra cupa sui nostri corpi, è attraverso la sorellanza che possiamo combatterla. Sorellanza nel presente e nel passato, imparando da chi prima di noi ha vissuto la stessa oppressione e ha provato a combatterla. Insieme possiamo farci forza e riappropriarci dei nostri corpi e della nostra storia.