La via Salaria è una strada consolare di origine romana, che nasce al centro di Roma e arriva fino al mare Adriatico, più o meno a S. Benedetto del Tronto. Nel suo percorso in uscita dalla città passa per luoghi non abitati e trascurati dall’illuminazione pubblica; è stato facile, nei decenni, trasformare questi tratti di strada in luoghi solitamente usati dalla prostituzione. Prendere i nomi dei luoghi di lavoro o di residenza e renderli precisi identificatori insultanti è tipico delle grandi città, e Roma non fa eccezione. I modi di dire legati a strade e quartieri usati come insulti o comunque qualifiche delle persone sono moltissimi (Corrado Guzzanti anni fa portò alla ribalta nazionale la battuta romana “ma che vieni daa montagna der sapone?”) e usati quotidianamente. La cultura popolare romana ha quindi fatto della via Salaria un luogo proverbiale: dire a una donna di “lavorare sulla Salaria” è un modo popolare per insultarla come p*.
Su quanto sia discriminante in più modi usare la parola p* – anche se in una forma “edulcorata” e popolare come quella della professoressa romana – su Bossy ci siamo espressə diverse volte in molti articoli. In questo caso di cronaca c’è però un’aggravante non da poco: quell’insulto discriminante viene da una figura autorevole, una professoressa. Questa, con la sua espressione, ha unito diverse forze discriminanti nella sua espressione: il marchio socialmente infamante della p*; il concetto di decoro come “abbigliamento consono al luogo”, mai formalizzato né formalizzabile ma molto facilmente strumentalizzabile per insultare; la sua posizione di potere dispari rispetto alla studente, che amplifica la potenza oppressiva delle due discriminazioni espresse con quella “battuta”.
Possiamo formulare diversi significati non espressi direttamente dalle parole della professoressa, ma comunque presenti nella sua battuta. Innanzitutto è stato chiaro che non ci fosse un piano dialogico, ma direttivo: la sua frase significa anche “qui comando io”, cioè quello che non corrisponde alla mia idea di moralità non è permesso. Specificatamente, la mia moralità non ammette che il corpo si possa usare in modi che io ritengo paragonabili a una attività sessuale svolta a pagamento in luogo pubblico. Inoltre – la dirigente scolastica ha detto che la docente voleva ammonire la studente a non farsi riprendere, con il rischio di diffondere in rete immagini di sé senza consenso – il fatto che tu ti stia riprendendo con il cellulare non ammette altre possibilità che un uso non consensuale e non moralmente ammissibile di quelle immagini: perciò non ritengo che tu possa fare l’uso che vuoi delle immagini del tuo corpo. Con una sola battuta, quella docente ha scaricato sulla studente un insieme ben scelto dei maschilismi più tossici e pesanti: le ha detto di non saper gestire il suo corpo, che non è libera di vestirsi come vuole, che è una p*.
Evidentemente serve ribadirlo ancora e ancora: nessuna “buona intenzione” rende ammissibile l’uso di un linguaggio sessista, di espressioni discriminanti, di codici moralistici inadeguati e non concordati. Quello che voleva fare la docente non conta nulla; quello che ha prodotto è un insulto sessista, che infatti ha causato in lei che lo ha ricevuto malessere, disagi e difficoltà.
I compagni e compagne hanno giustamente protestato e manifestato, probabilmente perché hanno una consapevolezza maggiore di alcuni problemi sociali attuali. Mentre un sistema scolastico e formativo non permette ancora, a livello istituzionale, che le competenze riguardo le questioni di genere, la sessualità, le discriminazioni e le diversità entrino in classe, chi sente il bisogno di informarsi cerca altre fonti che possano soddisfare la propria curiosità e trova un sempre maggiore numero di attivistə preparatə su questi argomenti. La vicenda si chiude in maniera paradossale: docente e dirigente continuano a non capire cosa sia successo di tanto grave, anche se una è “costretta” a punire l’altra; ə ragazzə se ne sono invece resə conto benissimo ma nessuno risponde alla loro richiesta di maggiore preparazione da parte di quelli che dovrebbero essere i loro autorevoli riferimenti.
Il risultato di questa mancata attenzione istituzionale alle questioni di genere è una ragazza traumatizzata, una docente punita per un gesto che poteva tranquillamente risparmiarsi, una dirigente scolastica che non ha ancora compreso l’entità del problema. Insomma, un grave danno sociale in ogni singolo caso di sessismo prodotto da chi insegna.
La Salaria come paragone per i comportamenti delle donne ce la dobbiamo togliere da dentro la testa.