Il mio nome non è importante; dove sono nata, cresciuta, se sono benestante o se vivo per strada, è irrilevante.
Credo in tante cose, tra queste c’è il potere della verità. E mi trovo qui, adesso, dopo diversi anni a raccontare a chiunque voglia ascoltare la mia, di verità.
Ho tantissime valide ragioni per farlo, ma in lista alla classifica ci sono i nomi, accanto al mio, di tutte quelle altre persone che hanno subito la stessa cosa o qualcosa di simile alla mia.
Hanno paura di parlare o, ancora peggio, non pensano che sia un problema, è “tutto normale”. Ci sono voluti diversi anni, tante sedute e una valanga di dolore prima che io abbia avuto chiaro cosa mi è successo durante diciotto anni della mia vita. Quando si parla di abusi si pensa allo stupro, e no: non è il mio caso. Le prime volte che ho provato a raccontare la mia storia, le persone erano confuse, mi dicevano che stavo esagerando e poi quando ero sull’orlo di un nuovo attacco di panico, mi sussurravano, improvvisamente interessati: “Ti hanno violentata?”.
È stato devastante quando mi sono resa conto che la gamma di violenze socialmente accettate non prevedeva la mia: è citata male e poco perfino nei libri che dovrebbero parlarne.
Sono stata educata da “brave persone” perché la domenica erano sempre in chiesa, perché lavoravano, perché erano gentili, perché erano due bianchi cristiani gentili ed educati.
Nessuno ha mai spostato lo sguardo da loro, quando seduti in chiesa al loro fianco c’era una bambina con dei lividi sulle gambe, gli occhi vacui e le mani strette a formare dei pugni, mentre si mordeva l’interno delle guance, perché quel dolore le ricordava di essere ancora viva.
La mia è la storia di diciotto anni di abusi fisici e psicologici, maltrattamenti, devastazioni, messa in atto da due persone che mi hanno tolto tutto prima ancora che avessi qualsiasi cosa.
Nel corso degli anni, mi è stato chiesto di: quantificare, rielaborare, capire, perdonare, giustificare, ridimensionare quel dolore che mi ha uccisa. Perché era la mia esagerata sensibilità, la mia eccessiva profondità ad alterare quello che era successo; perché, continuavano a ripetermi: “I tuoi genitori ti amano, non ti farebbero mai del male”.
Anche davanti all’evidenza, tutte le persone adulte, perfino gli specialisti a cui mi sono rivolta, non mi hanno creduta.
Una volta una mia amica assistette alla furia di mio padre che minacciava di “spaccarmi la testa”, che “sarei morta”, e mia madre, dopo avermi ribadito il mio essere una nullità, si avvicinò e mi sussurrò: “Se continui ti tiro i capelli, come l’ultima volta”. Li tirava talmente forte, che si staccavano intere ciocche che rimanevano nelle sue mani. La mia amica era venuta a casa mia solo per giocare, ma il risultato fu questo: era terrorizzata. Io invece avevo otto anni e faceva parte della mia normalità.
Adesso ho imparato le parole giuste e so che cosa sono. Immagino possibili motivi per le loro azioni, ma non mi sono mai spiegata il loro odio.
Quando ero una bambina passavo le mie giornate in quella casa e in una scuola. I bambini si divertivano a ridere di me per i miei vestiti consumati, i miei capelli sporchi, mentre le insegnanti preferivano umiliarmi per la mia innata incapacità accompagnata dalla mia evidente stupidità, a parer loro. Non ho mai capito perché. Come possono delle persone adulte godere del dolore inflitto a una bambina. Questo non me lo so spiegare.
Ma riconosco il perché, una bambina così, ogni notte, pregava, piangendo che qualcuno la portasse via. Dopo qualche anno, la preghiera si è trasformata in una supplica, sussurrata a letto, che diceva: “Ti prego, uccidimi”. E così ho sviluppato i miei svariati disturbi mentali. Ma è anche così che sono sopravvissuta.
La cosa più allarmante per me non è stata la consapevolezza di quello che stava succedendo (che è arrivata molto dopo), ma il rendermi conto che non ero la sola e che tutti tacevano.
Sono felice adesso di essere viva e soprattutto di essere stata in grado di costruirmi, a piccoli passi, la mia sicurezza, ma non potevo “andare avanti” e dimenticare o, ancor peggio, far finta che nulla fosse successo.
Perché, non posso dimenticare. Perché il peso di quel dolore lo porto ogni giorno.
Carissima,
Ti capisco. La mia storia è molto meno devastante della tua, ma non troppo diversa: per esempio, non ho mai subìto abusi fisici, ma di psicologici ne ho sopportati a valanga. E hai ragione: ti credono in pochi, perché questa società ancora intrisa di retaggi patriarcali e religiosi, ci fa pensare che la famiglia sia quasi una cosa sacra, ci fa pensare che i genitori fanno tutto per il nostro bene, che non potranno mai essere persone cattive nei nostri confronti. Tutte le persone con cui ho parlato di questo problema mi rispondevano infatti così: “lascia perdere, lo fanno per il tuo bene” e io non capivo proprio: come può farmi bene, sentirmi dire che sono un’idiota, che da grande sarò una fallita?
Poi, un giorno, un ragazzo (il mio attuale fidanzato) mi disse: no. Ciò che fanno non è normale, non è da accettare. E ora, forte soprattutto del suo sostegno, è così: io non lo accetto più. Certo, ci vivo ancora insieme, ma programmo di andare via nel giro di un paio di anni e di non avere più rapporti con loro. Perché finalmente, finalmente posso dire liberamente ad alta voce che loro NON sono “la mia famiglia”, e che non dobbiamo nulla a chi ci tratta così, nemmeno quando queste persone sono i nostri genitori.
Ti abbraccio forte.