TW: violenza di genere, femminicidio, molestie, dettagli sulla morte di Giulia Cecchettin
Non so che farmene di questo dolore. So che una ragazza che non conoscevo è morta, so che il suo corpo è stato nascosto in un canalone, so che dei cani hanno setacciato l’aria finché non hanno riconosciuto il suo odore. So che è stato un ragazzo ad ammazzarla, l’ha colpita, trascinata a terra e pugnalata settantacinque volte. So che c’era un uomo che ha sentito le urla e spaventato ha avvisato la polizia. So che il mondo se n’è stato zitto mentre Giulia si dissanguava.
So che lei è diventata uno dei nomi della lista di donne ammazzate da uomini. So che quella lista si è già fatta più lunga. Non so che farmene di questo dolore perché non è nuovo. Perché pervade ogni cosa, perché mi scorre nel sangue, perché se mi permetto di sentirlo ho paura che mi dilanierà da dentro. Voglio che l’ira che mi ribolle nel sangue esca, ma me la tengo buona buona dentro, come faccio sempre, perché ho imparato ad addomesticarla. Perché mia madre mi ha insegnato a farlo, perché mia nonna l’ha impartito a lei, perché io l’ho insegnato alla mia sorellina quando tremando mi chiedeva perché quell’uomo continuava a fissarle il petto. E io le ho detto di continuare a camminare e di alzare il passo, senza dare troppo nell’ occhio, mentre io contavo i passi e tendevo le orecchie.
Mi hanno detto di starmene buona e non pensarci troppo, perché se provi a parlare ti danno della pazza, e ti danno pure la colpa.
Mi hanno sussurrato che tanto non serve a niente, è che è meglio farsi i fatti propri e andare avanti, più che essere arrabbiate sempre. E poi a chi avrei urlato aiuto? Non c’era nessuno ad ascoltare le mie grida. Mi hanno detto di usare il cervello, è pianificare, provare, scervellarmi, e non permettere mai di trovarmi in situazioni pericolose. Poi però mi sono resa conto che “situazioni pericolose” includevano:
Uscire per buttare l’immondizia
Fare la spesa
Andare in palestra
Andare in università
Uscire a prendere la macchina
Bere un caffè al bar
Fare una passeggiata con mia sorella
Andare a mangiare un gelato
Andare in biblioteca a studiare
Camminare per i corridoi di scuola
Andare in bagno al bar
Andare in pizzeria
Stare a casa a vedermi un film
Scendere a ritirare un pacco
Ed ho realizzato di essere incastrata. Perché qualunque cosa io faccia, dovunque mi trovi, non posso mai smettere di essere una donna, i miei vestiti larghi e deformi possono proteggermi per un po’, ma non per sempre. Non da tutto. Posso confondermi con ə altrə, posso farmi piccola piccola, posso disperdermi nella folla, rendendomi un corpo senza forme e una bocca senza voce. Posso farmi a pezzi, plasmarmi a seconda di come il mio esistere possa permettermi di sopravvivere il più a lungo possibile, e lasciarmi inghiottire dal terrore di quello che può sempre accadere. Se faccio piano magari non mi sentono. Magari non si accorgono che sono lì. Che respiro ancora. Va bene se non mi vedono, fintanto che resto intera. Piano piano, meno mi vedono più non mi vedo. Mi sembra di scomparire. Non voglio scomparire.
Allora apro la bocca e parlo.
La voce è rauca, le ginocchia mi tremano, non li guardo in faccia, ma parlo. Mi guardano sorpresi, non possono più ignorarmi. Non sanno come la cosa li fa sentire. Mi guardano negli occhi confusi, fanno ricorso alla loro enciclopedia di donne per capire in quale rientro. Soddisfatti mi sorridono. Mi squadrano il corpo. Il mio cuore batte veloce. Ho parlato, e per la prima volta mi sento vera. Che esisto. Non riesco a pensare ad altro. Torno a casa. Immagino come una maglietta ed una gonna apparirebbero su di me, come sentirei la stoffa abbracciarmi la pelle.
Intervengo con gli amici, alzo la mano e chiedo spiegazioni alle insegnanti. Le mie compagne sono gentili. Altre mi guardano con diffidenza, hanno paura che il ruolo che si sono costruite con tanta fatica venga preso da me. Ce ne sono pochi di posti, non posso essere anche io quella intelligente. Quella che diventerà qualcuna, già per loro è quasi impossibile. Faccio amicizia con qualche ragazza, ridiamo insieme. Parliamo di compiti in classe, di libri, di film e di quell’attore famoso che vorremmo conoscere. Marco un po’ gli assomiglia, ci sussurriamo. Ridiamo e continuiamo a camminare verso casa. Sento il cuore leggero, ma quando siamo per strada ho sempre le orecchie tese, i sensi in allerta. Le macchine sfrecciano, i padroni portano i cani al guinzaglio, le loro zampe ticchettano contro l’asfalto. Uno con il cane mi passa da dietro, non gli vedo il viso;
“Troia” mi sussurra.
Stringo i denti. Cammino veloce a casa guardandomi intorno. Sento gli occhi bruciare. Il cuore balzarmi in petto. Ho paura. Mi chiudo in stanza. Non è successo niente mi ripeto. Solo un idiota con il cane. Mia madre a tavola mi chiede cos’ho che non va, io alzo le spalle e mangio. Un boccone alla volta, la pasta sembra esser diventata spilli, deglutire fa male, ogni muscolo è rigido, ho una pressione al petto che non capisco. Vorrei solo piangere nel letto, accasciarmi e scomparire. Perché ho messo la maglia blu? Dovevo stare più attenta. E il reggiseno? Dovevo metterci sopra la fascia che appiattisce , devo cancellare le tracce di donna che ci sono in me, così sono al sicuro. Mi stringo i capelli in una coda. Valuto se tagliarmeli corti. Le donne che i maschi chiamano troie non li hanno corti, no? Vorrei che non fossero biondi. Vorrei che i miei occhi fossero più piccoli e meno blu. Vorrei nascondermi il viso, vorrei non aver osato con il burrocacao alla fragola.
La mattina a colazione mio padre ha già preso il giornale, sbircio da sopra alla mia tazza di cereali e Nesquik, c’è la foto di una ragazza, in una delle pagine. È in fondo. Ma leggo il titolo: “La tragedia dei giovani innamorati; delitto d’amore, la famiglia del giovane testimonia”.
La gola si fa secca.
Guardo la mia tazza.
“Cosa dice?” Chiede mia madre versando il caffè nella tazza di mio padre.
“Un’altra che fa la troia e che viene sistemata.” Dice chiudendo il giornale.
I cereali galleggiano nella tazza, rilasciando il cacao nel latte. Lo stomaco mi si chiude. Non ho più fame.
Non so perché ci rimango così male, insomma, quella ragazza non era mia amica, e probabilmente se l’è andata a cercare. Almeno è quello che ho sentito in TV. Cammino verso scuola e penso alle raccomandazioni di mia nonna:
“Ai maschi devi stare attenta, devi fare la preziosa, ma non devi parlare troppo, poi a quelli li fai sentire stupidi e non va bene. Anche se sbagliano, tu lasciali dire. Una signorina non dice le parolacce, capito? Ha la schiena dritta, si trucca poco, ché se no la prendono per puttana. Ecco, brava, sistemati quella maglietta. Occhio a quello a scollo, non vorrai che pensino male?”
Passano le settimane e ce n’è un’altra sul giornale, non è la seconda, ho perso il conto e i nomi si facevano confusi. Ma era sempre la stessa storia, poveri ragazzi pazzi d’amore che buttavano l’acido in testa, che le pestavano a morte, che le stupravano e poi le facevano a pezzi. Poveri ragazzi innamorati.
Al bar ridono dicendo che le streghe hanno organizzato una protesta, quelle femministe che odiano gli uomini faranno un bel casino, si chiedono perché ci provano tanto, anche se sanno meglio di loro che le ragazze di oggi nascono storte, che a mazzate si raddrizzano, e che quello è un lavoro che spetta a gli uomini. Si scaldano tanto, per cosa? Funzionano così le cose, dalla notte dei tempi, dicono.“È perché ci vogliono rubare le donne” dice un vecchio.
“Quelle lesbiche di merda” sussurra un altro.
“Se le prendo io… Non sai cosa faccio a quelle.” Ride il vecchio.
Pago le mie patatine e corro via.
Dovrei essere a scuola, so che è stupido, ho lo zaino che pesa, ho tutti i libri, c’è Sarà che mi aspetta all’entrata come ogni mattina. Ma giro l’angolo. Salgo sul bus. Non è quella la direzione per la scuola. Ma non riesco. Non voglio scendere, non voglio starmene seduta sulla sedia dietro un banco, con il cuore che freme e le ginocchia che tremano, chiedendomi cosa stanno facendo alla manifestazione in centro. Scendo dal bus. Sono alla fermata a pochi metri dalla piazza. Megafoni. Striscioni. Urla. Coriandoli rossi. La piazza è invasa da donne, c’è anche qualche ragazzo, noto. Ma sono pochi e se ne stanno fermi a gli angoli ad osservare.
“Non staremo più zitte!” sbraita la ragazza al megafono. Ha gli occhi iniettati di sangue, le guance rigate da due strisce rosse, come chi sta per marciare in guerra.
“Ci hanno silenziate, mentre ci facevano a pezzi.” Continua.
Altre ragazze si avvicinano, le stiamo tutte intorno.
” Ma adesso basta!”
“Sui giornali, in televisione: parlano di lui come di un santo, e di lei come una vipera. Lei, la ragazza che ha ammazzato.”
Annuiamo. Non ha senso. Non ha senso quello che dicono di lei, come può una persona meritarsi la morte? Ed è davvero così che è essere amate? Se è così non lo voglio. Se lo tenessero per loro il loro amore.
“Lo vogliamo dentro quel bastardo.”
“Per lei, per Giulia, per tutte le sorelle che abbiamo perso. Non c’è ne staremo zitte! Marciate, marciate con noi!”
La folla ruggisce. Scoppia un applauso. Ho gli occhi che bruciano, il mio petto fa su e giù, ho il naso che mi cola. Sto piangendo, realizzo. Perché l’ha ammazzata? Perché continuano a farla a pezzi in TV? Perché nessuno dice niente, perché per noi questo è normale? Non è giusto, non è giusto, non è giusto.
Non so che farmene di questo dolore. Non so che farmene perché non è solo mio, perché le cose che ci dicono oggi le hanno dette a mia nonna quando era bambina e a sua madre prima di lei. Quante altre hanno camminato sulle nostre stesse strade, quante altre hanno marciato, pregando che le ascoltassero. Non so che farmene di questo dolore, mi muovo senza pensarci, la folla si muove, urlano, alzano le braccia, alcune piangono, dei ragazzi si uniscono a noi. Marciamo, una accanto all’altra, con i pugni chiusi e la scintilla che ha acceso questo fuoco.
Non so che farmene di questo dolore, ma so cosa possiamo iniziare a fare. Sento la rabbia che ho tenuto buona, ribollirmi dentro, uscirmi dalla gola, liberarsi dal mio petto. Voglio che questa scintilla l’accenda, voglio che il fuoco divampi, voglio che le fiamme si vedano da lontano, voglio che il fumo li avvisi che ci siamo. È iniziato. Penso.
Non lasciamo che ci distrugga, lasciamo che bruci.
Credits
Immagine cover sito: Foto di Alexis B (pexels)
Immagine sito orizzontale : Foto dalla pagina Facebook NON UNA DI MENO