Quando risponde al telefono, Simona Lanzoni ti travolge con la sua voce entusiasta, e per tutta la conversazione non fa altro che trasmetterti una vivacità propositiva tale che, quando appendo, vorrei infilarmi una tutina, trasformarmi in un supereroe e fare subito qualcosa di immenso, importante ed incisivo per la condizione umana.
Del resto, come ben sappiamo, non servono gesti eclatanti se giornalmente, nel nostro fazzoletto di terra che occupiamo camminando, muovessimo i nostri piedi nella corretta direzione, verso la distruzione di ogni singolo capillare che compone il tessuto della sopraffazione dei diritti umani.
E Simona, nell’intervista che ci ha rilasciato, ce lo ha ricordato.
È laureata in Scienze Politiche, è esperta in questioni di genere, diritti delle donne e microfinanza.
Ed è la Vice Presidente e Responsabile dei Programmi della Fondazione Pangea Onlus, organizzazione laica, apolitica e apartitica, che da più di dieci anni opera in Italia e nel mondo.
Pangea nasce per contrastare tutte le forme di violenza e discriminazione, oltre che per ripristinare tutti i diritti fondamentali.
E lo fa partendo dalle donne, all’interno delle linee di cooperazione allo sviluppo e di welfare indicate dai Paesi in cui agisce, dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea.
Ecco, quella mattina, di cosa abbiamo parlato.
Simona, ci racconti com’è nata Pangea e di cosa ti occupi?
Lavoro dall’inizio a Pangea, vengo da un percorso fatto innanzitutto con delle donne che lavoravano in una zona di conflitto con altre donne: da qui è iniziata la mia attività sull’Afghanistan, che mi ha permesso di incontrare Luca Lo Presti (presidente di Pangea n.d.r.) e che ci ha portati a far nascere la fondazione.
L’impegno sull’Afghanistan delle persone che compongono Pangea ci ha fatti incontrare, lavoravamo tutti lì: al tempo c’erano ancora i talebani ed eravamo molto impegnati a sostegno di associazioni di donne clandestine tra l’Afghanistan ed il Pakistan.
Questo ci ha sempre molto unito, facevamo molta sensibilzzazione anche se poi alla fine oltre la pacca sulla spalla non riuscivamo ad andare, mentre invece noi volevamo fare di più e quindi ecco com’è nata Pangea.
Da lì è iniziato il mio impegno all’estero: sono stata circa cinque anni in giro, soprattutto in Asia, Afghanistan, India, Nepal e poi sono rientrata in Italia.
Io ho sempre lavorato con i progetti all’estero anche se poi abbiamo iniziato a focalizzarci anche sulle donne nel nostro Paese.
Nel tempo sono cresciuta, attualmente sono Vice Presidente.
Il pallino del gender equality è da sempre dentro di me, quanto l’empowerment economico delle donne, il contrasto alla violenza: per me sono le chiavi per lavorare ad un miglioramento della condizione di quello che vedo.
È parte dei miei studi, quindi è sempre stato un po’ come mettere in pratica quello che avevo studiato e vissuto, e concretizzarlo.
Rientrata in Italia mi sono molto focalizzata anche sull’advocacy, sul cambiamento delle politiche che riguardano le donne, ed ecco che abbiamo iniziato a creare con Pangea delle reti coinvolgendo anche altre associazioni che si approcciano alle questioni relative i diritti umani e i diritti delle donne.
Sia in Italia che all’estero?
Sì, perché è importante sia avere una cassa di risonanza all’estero sia avere un confronto.
Trovo, per esempio, che la società civile attiva in India sia fantastica, a volte anche più avanti della nostra per come si organizza, per com’è capace ed in grado di tenere insieme una complessità che è dieci volte più grande di quella nostra.
Ti porto la società indiana come esempio, ma è comunque sempre interessante un confronto con l’esterno perché la dimensione globale motiva ad andare avanti e a non disperarsi.
A non perdere la speranza…
…esatto. Ed anche a relativizzare.
Così ci si rende conto che non ci si deve per forza lamentare sempre e comunque.
Serve sempre una visione più grande per poi riuscire ad andare nel dettaglio.
Questa è una delle chiavi che ci aiutano nel lavoro che facciamo nel quotidiano.
Attualmente quelle che sono le aree sulle quali agite sono l’Italia in primis, e poi, come mi dicevi, India e Afghanistan?
Sì, in questo momento sì.
Tra queste aree, tra i progetti che avete attivi, qual è il progetto che risulta più impegnativo, da un punto di vista proprio di riuscita degli obiettivi che vi siete prefissati e i traguardi che vorreste raggiungere?
Guarda, secondo me non dipende dal progetto, vanno tutti bene, il problema è il contesto in cui stanno.
Quindi, per esempio, l’Afghanistan è in una situazione che sta decisamente degenerando: ma non che sta degenerando il progetto, sta degenerando il contesto.
Le donne stesse hanno meno fiducia nel futuro. Tu le vedi, sono scoraggiate. Io ci ho vissuto nel momento più bello, quello della fine della guerra. C’era una voglia immensa di ricostruire e vedere. Adesso che non hanno più speranza, che vogliono solo scappare, vogliono solo andare in un posto che sia migliore. Fa veramente male, e non perché non vogliano rimanere e costruire nel loro paese, ma perché hanno paura che tutto ritorni com’era prima.
E quindi chiaramente vedere questo fa male, anche perché poi è un contesto in cui noi non possiamo più intervenire. È qualcosa che va oltre.
Dopodiché abbiamo trovato delle persone coraggiosissime, come sono coraggiosissime tutte le realtà in cui siamo.
Penso, non so, a Calcutta, dove abbiamo avviato la campagna #siamotuttipangea. Sono donne disabili che vivono situazioni difficilissime e c’è il presidente dell’India che sta facendo una stretta anche sulle organizzazioni non governative che lavorano con le persone, perché lui vuole fare puramente assistenza mentre noi facciamo attività di empowerment: diamo degli strumenti alle donne per tirarsene fuori.
Siete un altro tipo di strumento e mezzo per loro.
Sì, esatto, per esempio lì stanno chiudendo gli spazi pubblici usati dalle donne per riunirsi, che prima venivano utilizzati settimanalmente. Adesso li hanno tolti, quindi ora bisogna cercarne di altri o pagarli.
Rimanendo sul tema di quelli che sono problemi e difficoltà che Pangea trova nei contesti in cui opera, quali sono ad oggi? Facevi ora l’esempio dell’India.
Non posso dire ci siano difficoltà con le donne, non lo direi mai, non mi è mai successo.
Le difficoltà sono davvero nei contesti.
Noi facciamo un lavoro di empowerment e non di assistenza, quindi diamo delle opportunità.
Poi c’è chi le può cogliere, chi le vuole cogliere e poi ci sono contesti che rimangono fermi e quindi le donne diventano attrici di trasformazione del contesto stesso, che chiaramente è un processo che pretende tempo.
Un altro dei problemi è quello dei donatori che ti danno soldi per progetti a breve termine: noi abbiamo bisogno di tempo affinché i processi si attivino seriamente e quindi abbiamo bisogno di azioni di donazione durature nel tempo.
Sono tante le cose, la complessità dei progetti è questa.
È come contrastare la violenza. Il contrasto della violenza è prima di tutto una questione culturale, pensiamo solo al fatto che non c’è un riconoscimento già della parità di genere tra uomo e donna tanto più della molteplicità dei generi.
La violenza nasce prima di tutto dalla disuguaglianza dei generi: se ci fosse un avanzamento nel rispetto reciproco, sicuramente ci sarebbe una riduzione della violenza e quindi nel fattore culturale. Uno già accende la televisione e cadiamo a picco.
Pangea deve essere un meccanismo di trasformazione, non ci dobbiamo dire qual è la cosa più difficile, dobbiamo fare e basta, in diversi ambiti e a diversi livelli.
Come vi muovete nei territori sui quali operate?
Visto che sono tanti anni che facciamo lavoro sul campo, da un lato c’è fiducia reciproca coi partner quindi i progetti si costruiscono insieme, ma è importante che siano le persone locali a portarli avanti, poi noi facciamo supervisione, monitoraggio sui soldi, sui risultati che si ottengono, sull’impatto sulle donne che vengono intervistate, e da lì noi abbiamo dei risultati.
Però poi credo che se siamo un elemento di trasformazione non si debba andare lì e dire agli altri come devono fare, no?
Andiamo e discutiamo cosa vogliamo fare insieme.
Un gruppo…
…sì, poi da lì si costruisce un progetto, diventa un dibattito, un progetto partecipato.
Come nasce il rapporto con i partner, le realtà che vi supportano e aiutano sul campo e con le quali vi coordinate per portare avanti i progetti?
Sono nati perché appunto sono stata sempre responsabile progetti, ho viaggiato e incontrato le associazioni. Ho iniziato prima con dei piccoli progetti e poi con cose sempre più grandi.
Lo stesso qui in Italia: tutte le volte che abbiamo lavorato con realtà che si occupano di contrasto alla violenza o comunque di altre tematiche, sono sempre progetti nati prima da visite, da incontri, da dialoghi e poi da una scelta reciproca.
Ci sono state associazioni che hanno detto “noi con voi vogliamo lavorare” ed altre che hanno detto “no, noi con voi non vogliamo lavorare”.
Bisogna piacersi…
…esatto.
Sensibilità ed empatia sono richiesti.
Ad un livello molto, molto alto, e bisogna anche capire se si ha la stessa visione.
Chiaro.
È fondamentale perché altrimenti la prima difficoltà che si incontra è quella di cercare di capirsi, e cercare di capire qual è l’obiettivo comune. E si instaura una difficoltà di comunicazione.
Già.
Hai un quadro molto ampio della situazione femminile a livello mondiale, dato che spaziate in diverse aree con la vostra attività.
Se dovessi fare un confronto tra le donne e quella che è la loro condizione in Italia quanto in Afghanistan, quanto in India, cosa le accomuna, quali sono invece le differenze?
Alcune delle cose che sono uguali ovunque sono le disuguaglianze, poi ci sono le diverse forme in cui si concretizzano.
In India, per esempio, ci sono gli aborti forzati, la sterilizzazione forzata. Sei povera e vai a partorire? Esci senza utero.
Qui non succede, ma abbiamo altri problemi, tipo il Fertility Day.
Le forme cambiano, ma i contenuti sono gli stessi.
Si potrebbero ricondurre le problematiche ad un filo mondiale.
Sai, è un attimo cadere nello stereotipo anche in tema di violenza, tipo lo sposarsi a dodici anni in India e i matrimoni combinati.
E poi invece vai a vedere che hanno una legge fortissima da parecchi anni, ma il problema è l’applicazione, visto che sono un miliardo e duecentomila persone.
Vacci, in tutti villaggi, a dire che è vietato, a cambiare le tradizioni.
Le leggi ci sono. Là ci sono le leggi più avanzate, il problema è l’applicazione. Come poi si riesca a scendere verso quel canale che è la società civile che porta l’informazione su tutti i territori, lo decide l’impegno.
E nella società civile di impegno ultimamente se ne trova poco.
Nel medio-lungo termine quali sono gli obiettivi che con Pangea vi siete preposti? Quali sono i nuovi progetti che implementerete o avvierete?
Abbiamo attiva la campagna #siamotuttipangea.
Dicevamo, prima, che il presidente dell’India sta chiudendo i centri pubblici che prima nelle varie municipalità – per esempio a Calcutta – erano messi a disposizione delle donne: stiamo pensando di creare dei centri che siano per loro un punto di riferimento, dove si possano concentrare sulla cura della propria bellezza per sentirsi bene con se stesse.
Parliamo di una bellezza interiore ed esteriore, vogliamo perciò istituire una serie di consulenze: psicologica, legale.
Facciamo molti corsi di formazione, per esempio di leadership delle donne, per insegnare loro a stare di fronte alle situazioni.
Vogliamo creare dei centri che siano un punto fermo per le donne, per alimentare le relazioni tra loro e fare sì che non rimangano chiuse in casa, perché possano costruire qualcosa, riuscire a dare loro possibilità economiche affinché possano dare il loro contributo in famiglia e non essere considerate come delle disabili che non servono a niente.
In Italia stiamo continuando a lavorare e cercheremo di capire come meglio supportare il contrasto alla violenza.
C’è una sezione nel vostro sito chiamata “cosa puoi fare tu”: cosa può fare un privato per Pangea? Per dare il suo contributo a questo cambio di cultura?
Il cambio di cultura è qualcosa che nasce anche dal confronto nei propri territori e nella propria realtà: ogni persona può promuovere iniziative territoriali su questi temi, dibattiti, presentazioni di libri, discussioni.
Più se ne parla più il meccanismo trasformativo viene incentivato.
Contestualmente si può donare a Pangea perché possa continuare ad esistere.
È importante soprattutto creare delle reti. Essere in rete sulle tematiche importanti che ci piacciono e pensiamo che valgano.
Il contrasto alla violenza, le pari opportunità: con Pangea stiamo rifacendo, dopo cinque anni, il rapporto Ombra della CEDAW. L’altr’anno con altre associazioni abbiamo fatto quello di Pechino.
Sono puntelli che stiamo mettendo man mano per dimostrare alle istituzioni che cosa bisogna trasformare e modificare.
Essere parte di queste reti è importante quanto dibattere di queste tematiche nei propri territori.
Il silenzio non fa bene a nessuno.