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RuPaul’s Drag Race:fierce, shady, sickening…ma soprattutto necessaria
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RuPaul’s Drag Race:fierce, shady, sickening…ma soprattutto necessaria

Articolo di Lenny Melziade

Gentlemen, starts your engine, perché siamo per entrare nel mondo dell’ELEGANZA targata RuPaul.
Si è appena conclusa la nona stagione della RuPaul’s Drag Race, un talent show che aspira a trovare l’America’s Next Drag Queen. Come da titolo, la madrina del contest è RuPaul, indiscussa icona LBGT e regina del mondo Drag. L’importanza di “Mama Ru” nella comunità è imprescindibile: a lei va il merito di aver dato voce e spazio alla cultura Drag, grazie alla sua notorietà.

«Potete chiamarmi lui, potete chiamarmi lei, non m’importa! L’importante è che mi chiamiate!»


RuPaul, pseudonimo di RuPaul Andre Charles, si fa strada negli ambienti gay di Atlanta e New York a partire dagli anni Ottanta, come cantante e go-go dancer. Fa il botto all’inizio della decade successiva grazie alla hit Supermodel (you better work)
Grazie alla fama acquisita, nel 1994 duetta con un’altra icona gay, Elton John. Con la loro versione di Don’t Go Breaking My Heart, anche l’Italia conosce Ru, che viene persino invitata a Sanremo. Gli anni Novanta sono un periodo d’oro per Mama Ru: è infatti la prima drag queen testimonial per la più nota marca di make-up professionale, MAC, che lancia la campagna MAC AIDS Fund nel 1996. Nel poster promozionale campeggia Ru con lo slogan «I am the MAC girl».
Nello stesso anno, va in onda su VH1 The RuPaul Show, un talk show condotto dalla drag queen e da Michelle Visage (attualmente una delle giudici della Drag Race). Il programma, durato due stagioni per un totale di cento puntate, ha ospitato artisti del calibro di Olivia Newton-Jones, Neil Patrick Harris, Cyndi Lauper, Lynda Carter e Linda Blair.
Restando nel mondo televisivo, RuPaul ha fatto apparizioni (sia in drag che non) in serie di successo come Hercules, Sabrina Vita da Strega, Walker Texas Ranger, Ugly Betty, 2 Broke Girls e Girlboss.

RuPaul in drag e non.

Ma la carriera di RuPaul è costellata anche da successi discografici: in ventiquattro anni di carriera ha prodotto undici album e una serie di canzoni con testi ispirazionali:

And if I fly, or if I fall
Least I can say I gave it all
(da: Sissy Dat Walk)

Yes, I’m confident and self-assured
No holdin’ back, not like before
‘Cause I know what I want, can’t settle for less
Not tryin’ to flaunt it, I just want the best
(da: Lookin Good)

Si tratta di veri e propri inni che riguardano il female empowerment e l’orgoglio gay/drag, la femminilità in tutte le sue forme, la fiducia in se stessi e in generale un esempio di positività e coraggio verso mondi e realtà in cui, purtroppo, è facile cadere e difficile rialzarsi da soli.
Tuttavia, il picco della carriera di RuPaul è di sicuro l’omonima Drag Race. La prima stagione viene messa in onda nel 2009, con un budget limitato. In questi anni ha però guadagnato una grande popolarità, non solo all’interno della comunità gay. La nona stagione appena conclusa è probabilmente quella di più successo: la prima puntata è stata aperta da Lady Gaga nei panni di giudice ospite, e ha totalizzato quasi 1.000.000 spettatori, rendendola la puntata più vista di tutta la serie. In America è stata trasmessa da Logo TV, un canale che propone format a temi LBGT, mentre è recentemente approdata (parzialmente) su Netflix ed è stata trasferita su VH1, data la grande popolarità che ha acquisito. 
Negli anni Ru e il suo programma hanno anche accumulato diversi premi: dal GLAAD Media Award, per il Miglior programma reality, al Tv Com’s Best Award per Miglior Conduttore di Reality, fino al recente Primetime Creative Emmy Awards.
Esistono anche due spin off, Untucked! e RuPaul’s Drag U, oltre all’edizione All Star con le concorrenti popolari delle serie precedenti.
Insomma, la serie è quasi una mise en abîme della vita stessa di RuPaul, partito con umiltà dai piccoli locali e arrivato alla fama mondiale.
Ma cos’è di preciso questo show all’insegna di glitter e parrucconi? La Drag Race è un vero e proprio talent show, con sfide tra i partecipanti e prove da superare. La vincitrice si aggiudica un grosso premio in denaro, forniture a vita di cosmetici professionali, contratti di lavoro, copertine patinate e ovviamente tanta popolarità.

 

La posta in gioco è tanta e infatti il tutto è condito da una bella spolverata di commenti sarcastici, confessionali dietro le quinte irriverenti e pungenti, e vere e proprie frecciatine al vetriolo (o “throwing shades” per usare il termine dello slang drag). Nonostante questo, si instaura tra le partecipanti un rapporto di sorellanza e amicizia: non si tratta solo di uomini che si truccano e vestono da donne, c’è spazio per confessioni, coming out e romanticismo.
I produttori stessi hanno definito il format la versione “più gay” di America’s Next Top model e Project Runway, format dedicato agli stilisti emergenti. Infatti le queen non devono solo truccarsi, ma preparare tutta la loro performance, abiti inclusi. La prova finale tra le due regine a rischio di eliminazione è il temutissimo “lipsynch for your life” , altro pilastro della cultura drag.

“It’s a talent show in drag!” l’hanno anche definito, con un delizioso gioco di parole tra drag inteso nel significato di “mascherarsi” e drag queen. Come se il programma stesso fosse un programma “normale”, ma in versione drag.
Ma la Race non prende il nome di RuPaul solo perché RuPaul ne è il conduttore e giudice. Si tratta di un vero e proprio programma che ruota attorno alla sua figura: è vista come un modello per le carriere delle partecipanti, la sua presenza è sempre esaltata, le protagoniste l’applaudono e la rispettano con timore reverenziale. È sempre Ru ad avere l’ultima parola, a pronunciare le frasi più ricorrenti (ormai entrate nello slang dell’inglese americano) o le battute più esilaranti. È il mentore, lì per plasmare le regine e renderle famose, si spera, quasi quanto lui.

«Il fatto che questa parte della mia carriera sia così legata alla mia futura eredità nel mondo dello spettacolo e al mio essere mentore per le partecipanti, è davvero meraviglioso.»

Soprattutto, l’importanza della Drag Race è quella di essere il primo programma che dipinge, per quanto in maniera volutamente esagerata e stravagante, una parte della comunità LBGT che spesso è considerata di nicchia.
Le Drag hanno avuto un ruolo fondamentale nella comunità LBTQ: non si tratta solo di una forma d’arte creata dalla comunità e non ripresa dal mondo etero, ma spesso esponenti drag sono stati fondamentali per le lotte, basti pensare a Marsha P. Johnson, che per prima ha difeso le rivolte di Stonewall.
Per anni tuttavia il fenomeno drag è stato messo in disparte e spinto a margini della comunità LBGT, era uno spettacolo di nicchia, di intrattenimento, nulla di artistico o mainstream, alcuni – con una certa “omofobia interna”- lo definivano un fenomeno troppo gay.

Cosa c’era prima di Ru? C’era una subcultura da night club, con lustrini e paillettes. C’era Divine, tanto famosa da ispirare l’Ursula disneyana, c’era Lady Bunny e il documentario Paris is Burning (spesso citato durante le puntate).
Ma non c’era rappresentazione mainstream, non c’era un pittore che dipingesse con realismo il quadro drag.
Poi è arrivata la Drag Race. Nel corso delle stagioni ci hanno presentato i migliori talenti drag sulla piazza, in missione per conto di RuPaul per diffondere il verbo non solo della cultura drag ma anche dell’accettazione di sé, del gender come artificio e della distruzione del patriarcato.
Non solo vediamo finalmente in TV personaggi gay, ma li vediamo in un contesto di reality show. Se nel corso degli anni la TV ci ha effettivamente proposto dei format con personaggi queer, se non del tutto incentrati sul mondo queer (dal più edulcorato ma famosissimo Will&Grace ai più forti Queer As Folk e The L World), alla Drag Race va il merito di mostrare personaggi gay non creati ad hoc e fittizi, ma in contesti di realtà e competizione. Loro sono così, forse esagerano un po’ davanti alle telecamere, e di sicuro si sono create il loro personaggio da palcoscenico, ma non sono state create a tavolino dagli sceneggiatori.
In un mondo dello spettacolo in cui la comunità LBGT è rappresentata solo al 4% in TV, uno show come quello di RuPaul è una vera e propria ventata di aria fresca, che abbatte ogni stereotipo, ogni trope e ogni “bury your gays”.

E poi, quanta intersezionalità! Ci sono queen di colore, sudamericane, asiatiche e tutte ci presentano la loro porzione di comunità. Ci sono quelle che si sono aperte con MamaRu confessando i loro dilemmi circa il coming out, ma si parla anche di AIDS e sieropositività, di protagonisti con passati criminali, da alcolisti o da tossicodipendenti. Ovviamente ci sono persone transgender, è un tema scottante nelle varie puntate: alcune protagoniste hanno ammesso di essere nel periodo di transizione e un giudice ospite è stato Chaz Bono, il figlio di Cher e Sonny Bono che ha cambiato sesso nel 2008.

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Durante le puntate capita di trovare spazio per riflessioni importanti, come quando nell’ultima stagione sono state ricordate le vittime della strage di Orlando, o come quando le queen si confessano parlando delle difficoltà che hanno incontrato entrando in questo mondo, magari scappando dalla famiglia e rifugiandosi dalle “Mamme Drag”.
Nella quarta stagione (2012), una delle queen, Chad Micheals, ha parlato ampiamente dell’importanza del matrimonio tra persone dello stesso sesso, sottolineando la mancanza decisionale tra due partner di lunga data, in contesti importanti, legali o medici.
Il mondo queer è quindi rappresentato in maniera bilanciata, senza schierarsi politicamente.
La Drag Race è anche un ponte tra comunità gay e etero: negli anni la sua fama è cresciuta e ha guadagnato fan anche “dell’altra sponda’’, allungando le file degli ‘allies’ del mondo drag e, per estensione, del mondo LBGT.
L’influenza dello show è forte: c’è un proliferare di musica drag; basta aprire Twitter per trovare GIF delle queen (sia in drag che non) che vengono usate da chiunque; l’uso modi di dire presi direttamente dalle puntate, se non dal mondo drag per sé. “Non today Satan”, “Sashay Away” “Slay” “Throwing Shade’’ ‘’Sickening’’ sono solo alcuni degli esempi di come questo slang sia entrato nella lingua inglese comune, soprattutto quella usata nella comunità di internet.
Insomma, un vero e proprio fenomeno – come lo ha definito Alaska, paragonandolo a Star Trek.

Un programma così d’impatto, però, non poteva che ricevere delle piccole critiche, le stesse che venivano mosse inizialmente alla cultura drag. Alcuni infatti lo hanno definito “troppo gay”, probabilmente gli stessi “omofobi interni” che citavo poco fa. Altri pensano che il lipsynching non sia un vero e proprio talento. Ci sono state anche associazioni per i diritti transgender che si sono lamentate perché in certi casi RuPaul ha usato un linguaggio offensivo, con termini quali ‘tranny’ o ‘shemale’, i termini dispregiativi per ‘transessuale’. La critica, a mio avviso perde un po’ di credibilità nel momento in cui si parla di due parole a fronte di 9 stagioni in cui RuPaul ha aperto a livello nazionale un dialogo sulla transfobia, mostrando le sfaccettature delle persone transgender.
La Drag Race è stata cruciale per far uscire dall’ombra la cultura drag. Se a detta dell’ex vice presidente americano, Joe Biden, programmi come Will&Grace possono cambiare la visione di un paese circa il matrimonio omosessuale, cosa può fare un programma come la Drag Race, che ci mostra un’ampia varietà della comunità LBGT?

Quando c’era bisogno di un campione che desse voce a chi non l’aveva, è arrivato RuPaul. Chi meglio di un uomo di colore su tacchi a spillo, truccato di fino e in panni femminili, poteva col suo programma di Eleganza Estravaganza, mettere in discussione i concetti di razza, gender e orientamento sessuale in un programma televisivo…? Be’, solo Mama Ru.

«We were all born naked, the rest is drag.»

Grazie alla mia GUUURL Mattia per la fondamentale consulenza. 

View Comment (1)
  • Ehi, complimenti per l’articolo, volevo chiederti soltanto una cosa, ho notato che la sigla “LGBT” l’hai spesso riportata “LBGT”.
    C’é un motivo in particolare o no?
    Comunque mentre leggevo l’articolo avevo i brividi, é bello vedere che esistono programmi televisi con un impatto cosí forti e soprattutto cosí ben fatti, e quindi che mostrano una grande intersezionalitá e toccano dei temi importanti. Lo aggiungo alla lista di programmi da vedere subito.

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