Articolo di Laura Losanna
Il 2 giugno 1946 si tennero le elezioni dell’Assemblea Costituente e il referendum istituzionale che chiamava la totalità dei cittadini, dopo il Ventennio fascista, a decidere tra monarchia e repubblica. Questa data ha assunto un’importanza fondamentale nella storia del nostro paese non solo perché ha decretato la vittoria della Repubblica, ma anche perché ha reso effettiva la partecipazione politica delle donne, che per la prima volta dalla nascita dello Stato italiano furono chiamate alle urne.
Dopo l’Unità d’Italia, la questione del suffragio femminile fu discussa a più riprese nell’ambito del dibattito politico ma, anche se erano stati approvati in Parlamento dei disegni di legge favorevoli alla causa già intorno agli anni ‘20, dovremo aspettare il 1945 perché il governo Bonomi sancisca definitivamente il diritto delle donne a votare (e il 1946 per il diritto a essere elette).
La prima proposta parlamentare sulla questione fu avanzata nel 1888, ma fu subito respinta dal capo del governo Crispi. Neanche una ventina di anni dopo andò meglio: nel 1907 la petizione promossa dal comitato pro-suffragio di Roma e redatta da Anna Maria Mozzoni rimase inascoltata e il progetto di legge presentato da Roberto Mirabelli fu bocciato dal Parlamento.
Quando, con la riforma elettorale del 1912 che sanciva il suffragio universale maschile, il diritto di voto fu esteso a tutti gli uomini senza distinzione di censo, la questione del suffragio femminile divenne più pressante: tale riforma diede infatti nuova linfa vitale alle rivendicazioni delle suffragiste, che giudicavano inaccettabile l’esclusione di tutte le donne dal voto a fronte di un’estensione di tale diritto addirittura a uomini analfabeti, in possesso del solo requisito di essere uomini.
Fino alla fine della prima guerra mondiale, dinanzi all’eventualità di un’estensione del diritto di voto anche alle donne, rimasero ben saldi pregiudizi, timori e perplessità tra la maggioranza della popolazione, perfino tra le donne stesse. Innanzitutto le preoccupazioni erano destate dalla situazione di promiscuità tra uomini e donne che si sarebbe inevitabilmente venuta creare nei seggi elettorali (non dobbiamo dimenticare che, a quei tempi, la questione della rispettabilità per una donna era di fondamentale importanza e le occasioni in cui donne e uomini erano liberi di incontrarsi non erano molte). Inoltre le donne erano considerate deboli, altamente suggestionabili, prive di una preparazione politica adeguata – e, secondo alcuni, impossibilitate in ogni caso a riceverne una, in quanto “naturalmente” portate ad essere amministratrici della casa e madri di famiglia, e non “animali politici”. Il timore più diffuso era che le donne sposate, da elettrici, avrebbero votato ciò che avrebbe indicato loro il marito per obbedienza, regalando di fatto un “doppio voto” a tutti gli uomini sposati.
Nel primo dopoguerra tuttavia ci fu un’inversione di rotta, un po’ perché la sensibilità nazionale, di fronte alle conquiste sul piano politico e giuridico già ottenute dalle donne all’estero, stava piano a piano mutando, un po’ perché l’impegno delle donne in attività assistenziali e in lavori normalmente svolti dagli uomini durante la Grande Guerra aveva contribuito a far vacillare il mito secondo cui le donne non potessero occuparsi “per natura” di qualunque attività si svolgesse al di fuori delle mura domestiche, sostituendolo con la convinzione che anche loro potessero offrire un contributo concreto e diretto all’interno della società.
Qualunque fosse stata la causa di questo cambiamento di prospettiva, fatto sta che ormai la maggioranza della popolazione – e dei parlamentari – era schierata a favore del suffragio femminile. Nel 1919 fu approvata dalla Camera un disegno di legge che prevedeva il diritto di voto per le donne, eccetto le prostitute, a partire dalle elezioni successive. Ma nel frattempo il governo fu sciolto e il progetto di legge non fece in tempo a vedersi approvato dal Senato, cadendo così nel vuoto.
Anche il fascismo, in un primo momento, si mostrò favorevole alla causa del suffragio femminile: tale provvedimento era infatti inserito nel programma iniziale proposto da Mussolini. Tra i gerarchi fascisti tuttavia c’era chi credeva nella natura fondamentalmente maschile del movimento e che non vedeva di buon grado la partecipazione politica femminile, se non relegata a ruolo di semplice sostegno. Nonostante questo, nel 1925 fu concesso il diritto di voto ad alcune categorie di donne che avessero compiuto i 25 anni di età per le elezioni amministrative. Ma presto fu chiaro che si trattava solo di un atto di demagogia: già nel 1926 vennero istituiti podestà nominati dal governo, non eletti dalla popolazione, abolendo così tutti gli organismi rappresentativi locali e facendo sfumare per le donne ogni possibilità di esercitare il proprio diritto di voto.
Durante la seconda guerra mondiale, poiché la maggioranza della popolazione maschile era impegnata a combattere al fronte, molte donne furono costrette a imparare a gestire completamente da sole la propria famiglia e la propria vita, affrontando per la prima volta la burocrazia, prendendo decisioni che in precedenza spettavano al padre di famiglia, occupandosi del sostentamento dei propri familiari e andando a lavorare – insomma, impararono ad affrontare direttamente il mondo esterno e ad assumere un ruolo attivo all’interno della vita pubblica. Oltre a ciò, non dobbiamo dimenticare tutte quelle donne che lottarono attivamente, anche a costo della vita, durante il periodo della Resistenza, mostrando alla nazione intera il fondamentale ruolo politico che le donne ricoprivano – e che avevano tutto il diritto di ricoprire.
Ebbene, tutto ciò contribuì a diffondere l’idea che la partecipazione politica delle donne fosse ormai comprovata e indiscutibile e che l’estensione del suffragio fosse un esito inevitabile, proprio perché ovvio. Il provvedimento che lo sancì fu infatti approvato il primo febbraio 1945 all’unanimità, senza troppe cerimonie.
Tuttavia la conquista di tale diritto non spazzò via le perplessità preesistenti, almeno negli anni immediatamente successivi all’approvazione del decreto. In primo luogo c’era ancora chi credeva che le donne al seggio avrebbero votato seguendo le indicazioni del marito – e, d’altro canto, c’era chi temeva una limitazione dell’autorità maritale da questa nuova situazione, perché il voto era segreto e non sarebbe stato possibile esercitare un effettivo controllo sulle scelte delle mogli. Inoltre tra i politici, in particolar modo tra gli esponenti della sinistra, aleggiava il timore che le donne avrebbero seguito non tanto l’orientamento politico del marito quanto quello del clero e della Chiesa (che, è bene ricordare, all’epoca trovava rappresentanza politica nel partito della DC e che esercitava ancora un’enorme influenza morale e ideologica, oltre che religiosa, sulle donne italiane).
Anche il numero estremamente esiguo delle donne candidate ed elette al Parlamento in quegli anni contribuisce a confermare la lunga persistenza di pregiudizi riguardo alla partecipazione politica delle italiane all’epoca. Pregiudizi in gran parte condivisi dalle donne stesse: molte di loro infatti erano restie tanto a candidarsi, sostanzialmente per mancanza di fiducia nelle proprie capacità, quanto a votare una donna, perché ritenuta inadeguata a quei ruoli rispetto ai colleghi uomini. Inoltre alla maggioranza della popolazione non era ancora chiaro se le donne fossero state elette in Parlamento esclusivamente per sostenere gli interessi femminili o se dovessero rappresentare la totalità degli italiani.
Insomma, non fu tutto rose e fiori, ma non c’è dubbio che quella del primo febbraio 1945 fu una tappa fondamentale non solo della storia delle donne, ma anche della storia della democrazia italiana. Nonostante le difficoltà iniziali, l’estensione del diritto di voto alle donne fu accolto con grande gioia ed eccitazione da parte di tutte le italiane: finalmente la legge sanciva ufficialmente il loro diritto di partecipare alla vita politica in prima persona, in quanto cittadine.
Fonte: Perry Willson, Women in Twentieth-Century Italy, Palgrave Macmillan, 2010
Bell’articolo! Credo che nelle scuole non si insegni abbastanza il percorso storico delle donne italiane verso le pari opportunità. Grazie per aver scritto questo articolo, che ricorda che le italiane hanno dovuto lottare, e che tra alti e bassi, hanno scritto la storia della Repubblica e hanno aperto le porte della libertà a noi giovani donne.