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Una comunità di Vagine: Judy Chicago e Miriam Schapiro
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Una comunità di Vagine: Judy Chicago e Miriam Schapiro

Articolo di Rossella Ciciarelli

“Ero preoccupata per la mia Vagina. Mi serviva un contesto di altre vagine ― una comunità, una cultura di vagine.”

Tenete a mente questa frase, tratta dalla pièce teatrale I monologhi della vagina di Eve Ensler; immaginate poi, riunite in una sala, un gruppo di studentesse e due artiste nonché docenti d’arte del California Institute of the Arts (CalArts); e ora scopriamo insieme il perché di questo accostamento.

È il 1971 e ci troviamo nel bel mezzo degli “anni ruggenti del femminismo”, quelli della seconda ondata: sempre più donne lottavano per ottenere diritti fondamentali come l’aborto e contro gli stereotipi e gli schemi culturali che le imprigionavano nella dicotomia santa/moglie/madre o donna facile/poco di buono. Ma la portata di quanto stava accadendo non si esauriva in queste rivendicazioni: vi era la voglia di riscoprire i propri corpi, di condividere le proprie esperienze, di conoscere la propria storia.

Il femminismo era come una lente che permetteva di leggere oltre quelle che erano le pagine scritte dalla prospettiva dominante – che coincideva per lo più con quella dell’uomo cis, etero, bianco e benestante – e riscoprire altri modi di vedere la realtà, altre biografie, altre storie che il mondo lo raccontavano altrettanto bene, ma che erano state dimenticate. Senza questa lente, solo pagine bianche: era perciò arrivato il momento di riscriverle e renderle visibili a tutti.

In quegli anni, insomma, il femminismo iniziava a proporre un nuovo modo di rileggere discipline monolitiche come la letteratura, la storia, l’archeologia, che da sempre erano state condotte e raccontate secondo un determinato punto di vista. Lo stesso cambio di prospettiva si stava verificando nella storia dell’arte e proprio il 1971, anno da cui siamo partiti, segna un passaggio fondamentale: in quell’anno infatti venne pubblicato il saggio che è diventato la pietra miliare della storia e della critica femminista dell’arte, ovvero “Perché non ci sono state grandi artiste?” di Linda Nochlin.

Questo saggio mostrava – a partire dal titolo – come troppo spesso le questioni nel mondo fossero condizionate, se non addirittura falsificate, dal modo in cui le domande più importanti venivano poste. Da questo momento in poi le direzioni prese dagli studi furono molteplici, e diverse furono ad esempio le pubblicazioni di biografie di artiste fino ad allora dimenticate e riscoperte proprio in quel periodo.

Ciò però non bastava e si decise perciò di mettere in atto un approccio decostruttivista: era necessario decostruire la storia dell’arte così come la si conosceva, che non voleva dire rinnegarla, ma metterne in discussione i valori attraverso i quali un’opera veniva giudicata, capire quali esperienze di vita essi riflettessero, analizzare la posizione storica e ideologica delle donne nei confronti dell’arte, e anche capire in che modo gli immaginari maschile e femminile emergessero dalla loro presenza nelle opere. Fatto questo, si poteva ricostruire e ampliare la disciplina con nuove prospettive di analisi e nuovi interrogativi. Se da un lato quindi aumentavano le pubblicazioni critiche e teoriche, gli stessi fini – riscoprire il proprio passato e indagare il presente, interrogarsi sull’esistenza o meno di un’estetica femminile – erano perseguiti dalle artiste del tempo.

Ecco che possiamo tornare al nostro gruppo di studentesse e alle due artiste e docenti, ovvero Judy Chicago e Miriam Schapiro.

Già nel 1970 Judy Chicago aveva dato vita al primo programma d’arte femminista al Fresno State College. Il suo corso era solo per metà dedicato alla ricerca artistica e riservava l’altra all’educazione, alla consapevolezza e alla terapia di gruppo: Judy voleva che le sue studentesse fossero anzitutto delle donne consapevoli ed emotivamente oneste con se stesse e con gli altri e che attingessero alla propria esperienza personale per fare arte. Lo stesso scopo continuò a perseguire l’anno successivo al California Institute of the Arts, dove era stata invitata proprio da Schapiro per dare vita insieme a un corso d’arte femminista. Qui le due donne e le loro studentesse condussero un più ambizioso “Feminist Art Program”: un progetto di gruppo sperimentale svoltosi in una casa abbandonata accanto all’istituto e che portò a risultati sorprendenti.

Basterebbe fermarsi qui per capire come in questo decennio di femminismo, l’arte non fosse mossa tanto dalla rabbia, quanto dal senso di comunità, dalla fede nella possibilità che il fare artistico potesse promuovere e generare una nuova consapevolezza.

“Avevamo trovato l’oro della sorellanza, che fu una scoperta unica e preziosa. Ci diede il supporto morale che l’isolamento precedente ci impediva di ottenere. Fuori dai nostri gruppi di auto-consapevolezza e dai nostri incontri d’azione politica, emergevamo con una vigorosa identità artistica”.
 Miriam Schapiro

Il risultato del Feminist Art Program condotto da Judy Chicago e Miriam Schapiro è la Womanhouse, un’installazione artistica per la cui realizzazione il gruppo ristrutturò e ripensò concettualmente un’intera casa. Lasciamo che siano Miriam e Judy a chiarirci le idee:

“Il nostro scopo era di rendere la vecchia casa un luogo di sogni e fantasie. Ogni stanza sarebbe stata trasformata in un ambiente artistico non funzionante.”
Miriam Schapiro

“Le donne erano state incastonate nelle case per secoli e avevano trapuntato, cucito, cotto, cucinato, decorato e annidato le loro energie creative. Cosa sarebbe successo, ci chiedemmo, se le donne avessero preso le stesse attività domestiche per portarle a proporzioni fantastiche?”
Judy Chicago

In altre parole, le artiste della Womanhouse hanno usato la parodia e l’esagerazione come strumenti per minare gli stereotipi che le imprigionavano in ruoli domestici e le violenze che i ruoli sociali impartivano loro.

L’opera univa l’interesse di Judy per il costruire una storia e un’arte femministe e quelli di Miriam verso le donne e le loro attività e verso il superamento della divisione nell’arte di una produzione alta (la pittura, la scultura) da una bassa (la porcellana, il ricamo) generalmente attribuita alle donne, fra dunque Art e Craft, Arte definita con la “a” maiuscola e l’arte decorativa; sia Judy che Miriam hanno sviluppato la propria carriera sulla base di queste premesse.

Se avessimo avuto la possibilità di visitare questa casa, uno dei primi ambienti in cui ci saremmo imbattuti è la cucina: interamente ricoperta di uova che si trasformano in seni, essa diventa l’estensione della madre-nutrice. Lo scopo è quello di sottolineare gli aspetti disumanizzanti del ruolo della donna quando essa viene vista esclusivamente come madre, come colei che deve provvedere al nutrimento e alla crescita della famiglia.
La cucina è anche esemplare del modo di procedere del gruppo di artiste: nel momento della sua realizzazione infatti si trovarono a corto di idee e l’impasse fu risolta attraverso una seduta di gruppo. Alle studentesse venne chiesto di trovare nei propri ricordi sensazioni legate a quell’ambiente domestico ed emerse che molte lo vedevano come una zona di scontro psicologico fra loro stesse e le proprie madri, fra ruoli, compiti e aspettative.

Continuando a muoverci negli ambienti della casa, avremmo potuto vedere in diversi punti delle donne-manichino diventare parte integrante di essa, intrappolate fra armadi e pareti, come un oggetto fra gli altri.

Di forte impatto poi è una stanza curata personalmente da Judy Chicago, il bagno delle mestruazioni, in cui tutto è bianco e asettico, tranne che per un cesto straripante di quelli che sembrano essere prodotti sanitari femminili pitturati di rosso, come fossero intrisi di sangue; è il segreto nascosto di una donna, il ciclo come fonte di vergogna che deve essere celato dietro la porta di un bagno chiusa a chiave.

Curata da Miriam Schapiro è invece la stanza della casa delle bambole. In questa casetta in miniatura, l’artista visualizza gli incubi in ambienti trattati altrimenti in maniera realistica: nella culla il bambino è sostituito da un mostro, ragni e serpenti a sonagli si muovono sul pavimento, un orso e un gruppo di dieci uomini spiano dalle finestre della casa, rendendo l’atmosfera inquietante.

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Dopo l’esperienza della Womanhouse, le due donne intrapresero strade separate, seppur unite dai fini della ricerca.

Judy si immerse in un progetto che portò alla nascita dell’opera The Dinner Party. Rinunciando all’insegnamento accademico ma non a lavorare in comunità, creò una sorta di studio artistico aperto, intorno al quale iniziarono a gravitare sempre più persone, donne e uomini, che furono indispensabili per il lavoro di studio, di ricerca di fondi e di creazione materiale dell’enorme installazione che Judy aveva in mente.
Aperta al pubblico nel 1979 nel Museo di Arte moderna a San Francisco, l’installazione consisteva in tre enormi tavoli disposti a triangolo, volti a ospitare in un banchetto immaginario 39 influenti donne della storia occidentale, da Ipazia a Isabella d’Este, fino a Virginia Woolf. Ogni ospite aveva un piatto di porcellana, la cui forma rimandava chiaramente alla vagina, e una sorta di “tovaglia” raffigurante la donna e le sue realizzazioni. Ogni ala del tavolo sottolineava il punto di vista di Chicago sull’ascesa, la caduta e la rinascita del potere femminile nella civiltà occidentale: il primo tavolo, l’epoca dell’adorazione della dea; il secondo, l’inizio del cristianesimo e l’ascesa del patriarcato; il terzo, la moderna istituzionalizzazione del potere maschile e l’aumento dei movimenti femministi. La base in marmo, detta Heritage Floor, riporta altri 999 nomi di donne della storia.

“Poiché ci viene negata la conoscenza della nostra storia, siamo private del fatto di trovarci l’una sulle spalle dell’altra e di costruirci l’una sull’altra i meritati traguardi raggiunti; siamo condannate a ripetere ciò che altre hanno fatto prima di noi e così continuamente reinventiamo la ruota. Lo scopo di The Dinner Party è quello di rompere questo ciclo. “

Miriam Schapiro scelse invece di accogliere nella propria arte le donne anonime e la loro “produzione domestica”, dando agli oggetti un nuovo livello di significato e non abbandonando mai motivi decorativi, utilizzati nei suoi femmage: collage, assemblage e fotomontaggi che volevano raccontare le donne, le loro esperienze e punti di vista, nella ricerca di una creatività femminile.

“Volevo convalidare le attività tradizionali delle donne, collegarmi con le donne sconosciute che producevano trapunte, che avevano fatto l’invisibile ‘lavoro della donna’ della civiltà, volevo riconoscerle, onorarle”.

“Un’artista donna vive una contraddizione nella sua vita, si sente soggetto in un mondo che la tratta come oggetto: il suo lavoro diventa spesso un’arena simbolica in cui riesce a stabilire con fermezza il senso dell’identità personale. Si chiede: Chi sono Io? E procede a ritrarre un’immagine, centrale e chiara, che proclama a un mondo disinteressato le sue informazioni su chi è: molte donne lo hanno fatto, ma le loro immagini rimangono invisibili, informazioni non digerite da una società che insiste su una sola prospettiva.”

Rendere visibile l’invisibile, ricordare il dimenticato: in sintesi, questo è il senso dell’operato di Miriam Schapiro e Judy Chicago e di tante altre donne che a livello pratico o teorico iniziarono a operare sotto l’influsso degli anni ruggenti del femminismo. Così, ritorna utile la citazione di Eve Ensler con cui abbiamo aperto l’articolo: perché ci aiuta a comprendere la necessità delle artiste della seconda ondata del femminismo di riappropriarsi di spazi per creare comunità di vagine, non per negare ed escludere l’altro, ma per conoscersi e scrivere pagine nuove.

Per approfondire:
-Jane Gerhard, Judy Chicago and the Practice of 1970s Feminism in Feminist Studies, vol. 37, no. 3, 2011.
– Miriam Schapiro, Recalling Womanhouse, in Women’s Studies Quarterly, Vol. 15, 1987.
– Per quanto riguarda la seconda ondata femminista consiglio il documentario Netflix, Femministe: Ritratti di un’epoca; fra le moltissime donne che raccontano quegli anni vi è la stessa Chicago.

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