Articolo di Mirko Galante
No, non è il nome della nuova aiutante di Wonder Woman e non comparirà nel prossimo film della DC Comics sulla Justice League: womenomics è una brillante teoria sviluppata alla fine degli anni Novanta da Kathy Matsui, CSO di Goldman Sachs.
Il sunto che sta alla base di questa tesi è dare maggiore spazio alle donne nel mercato del lavoro per portare maggiori benefici all’intera economia: un numero maggiore di occupati, infatti, aumenta il PIL, la ricchezza generale e i consumi.
Dunque l’occupazione femminile viene vista come un pulsante on-off che attiva una serie di legami effetto-conseguenza, necessari per ripristinare l’economia di un Paese.
Quando e perché nasce womenomics?
Trova le sue radici nel 1999, quando Kathy Matsui, ricercatrice della nota banca d’affari Goldman Sachs, scrisse un rapporto sulla crisi economica che colpiva il Giappone in quegli anni.
Secondo Matsui, il Giappone si trovava in una fase di recessione economica perché non lasciava spazio alle donne:
«il sistema nipponico selezionava solamente dalla parte “maschile” della popolazione, precludendosi in modo programmatico di allargare la platea di talenti e competenze a cui attingere, escludendo le competenze femminili.» (M. Ferrera, 2008)
La ragione del mancato utilizzo della forza lavoro femminile risiedeva, secondo Matsui, nel maschilismo e nel tradizionalismo dilaganti nel paese asiatico.
Kathy Matsui nel suo rapporto definì un elenco di specifici settori che avrebbero tratto benefici dal crescente potere d’acquisto delle donne: i servizi finanziari, gli acquisti online, la cosmesi, la cura personale e l’abbigliamento avrebbero aumentato le vendite dei propri prodotti, andando a creare un vero e proprio nuovo mercato, conosciuto sotto il nome (a mio parere orrendo) di “consumi rosa”.
Le recenti analisi di Goldman Sachs stimano che se i paesi dell’OECD allineassero i propri tassi di occupazione femminile ai livelli di quello maschile, il loro PIL crescerebbe mediamente del 12%: addirittura, nel caso del nostro Paese – che di problemi in fatto di PIL ne ha parecchi – se si colmasse il gap tra uomini e donne, portando quindi il tasso di occupazione femminile dal 47% al 70% circa, il PIL crescerebbe quasi del 17%. Uno scenario senz’altro utopistico, ma che vedrebbe un bel balzo in avanti rispetto ai vari +0,5% di cui si parla recentemente.
Ma quali sono le conseguenze sui consumi?
Molto semplicemente, in una famiglia in cui entrambi i partner lavorano e vi sono ad esempio figli, anziani o comunque persone non autosufficienti, la prima fondamentale esigenza è il servizio di cura. Se la donna, da sempre incaricata a svolgere queste funzioni, non è più disponibile a fornire assistenza informale per mancanza di tempo, sarà necessario trovare qualcuno che se ne occupi al suo posto all’interno dei servizi formali, ricorrendo al mercato: ciò porta a nuove occupazioni e assunzioni in quel settore.
Altro esempio può essere quello della preparazione dei pranzi o delle cene: se tutti i membri di una famiglia lavorano, chi fa la spesa e cucina la cena? Ci sarebbe quindi bisogno di maggiori servizi come spesa online con consegna a domicilio, maggiori ristoranti take-away o addirittura, per le famiglie più “abbienti”, misure fiscali incentivanti per l’assunzione di domestici (come previsto da Abe, Primo Ministro giapponese, per le aree di Osaka e Tokyo).
Altro punto fondamentale è quello sui tassi di fecondità. Ferility Day a parte, l’Italia si trova davvero in difficoltà sotto questo aspetto: abbiamo un tasso di fecondità così basso che entro il 2050 si stima che la popolazione italiana scenda a circa 43 milioni di persone.
Le donne che lavorano non possono fare figli. Non hanno tempo per curarli.
Nulla di più sbagliato: secondo le analisi di Goldman Sachs, se si rapportano i tassi di occupazione femminile ai tassi di fecondità, si osserva una correlazione nettamente positiva.
Ciò significa che i paesi con tassi di occupazione più elevati come Svezia, Danimarca, Paesi Bassi e Regno Unito tendono ad avere tassi di fecondità più elevati e viceversa, a dispetto della correlazione negativa tradizionalmente sostenuta dalla teoria economica e dai dati statistici fino agli anni Ottanta. Più lavoro significa infatti maggiore sicurezza economica, ed è questo uno di quei fattori che spinge le famiglie che lo desiderano ad avere figli.
Fonte: Goldman Sachs Research 2014
Quindi Goldman Sachs è l’azienda dove tutti vorrebbero lavorare?
Sì e no. Recentemente ha fatto molto scalpore l’articolo di Fortune sul fatto che i recruiter dell’azienda bancaria chiedano espressamente ai candidati se appartengono a una delle categorie LGBT.
L’attuale CDO, in replica alle polemiche su queste apparenti domande discriminatorie, ha affermato:
«Vogliamo assicurarci che la banca non discrimini ingiustamente gli appartenenti alle categorie LGBT. Vogliamo mantenerci responsabili».
A riprova di ciò, bisogna ricordare che Goldman Sachs nel pacchetto di benefits che offre ai propri lavoratori include anche un’assicurazione che copre la maggior parte delle spese chirurgiche per un eventuale cambio di sesso. In perfetta linea con le dichiarazioni del CDO.
Tuttavia, voler tutelare i diritti delle persone LGBT non autorizza in ogni caso un’azienda a fare domande sull’orientamento sessuale del candidato in sede di colloquio: si tratta di una pratica altamente discriminatoria, anche se volta con tono “protettivo” nei confronti della persona stessa.
L’orientamento sessuale come quello religioso, l’etnia, l’essere diversamente abili o l’età non dovrebbero assolutamente condizionare il processo di selezione, allo stesso modo in cui non condizionano assolutamente la prestazione lavorativa.