Io e il mio compagno stiamo cercando casa. Lui di Napoli, vive a Bergamo; io nato e sempre vissuto all’ombra delle Orobie. La domanda è quindi dove cercare: restare in paese o andare in città? Nord o Sud? Spostarsi a Milano?
Possono sembrare domande che ogni coppia deve affrontare a un certo punto. Ma spesso da fuori la comunità non si vede la complessità di questa decisione e il conflitto che genera. Nel nostro caso la questione legata all’essere una coppia gay nella periferia bergamasca si intreccia all’essere emigrato, esperienza che io vivo solo di riflesso. Nella ricerca della nostra casa quindi si intrecciano livelli di complessità, di ricerca di appartenenza differenti ma spesso contigui.
Scegliere una casa dovrebbe voler dire immaginare di abbracciare il proprio partner in cucina mentre armeggia ai fornelli, vedere l’angolino dove mettere la torre per far giocare il tuo gatto di nome Guido, scegliere il quartiere dove ci sia un parco con un’altalena per tua figlia. Non dovrebbe essere necessario prendere appuntamento non sapendo come il proprietario, l’agente immobiliare, i vicini e le vicine reagiranno alla vista di due uomini che visitano una casa per costruire un futuro insieme; non dovrebbe significare pensare a quanto possa essere lontano il primo locale LGBTQ friendly. Spesso il futuro insieme diventa sfocato dietro questa fitta rete di ostacoli sociali, politici, umani. Spesso non siamo noi a scegliere dove ‘mettere radici’.
A queste fatiche si aggiunge quella economica. E sono consapevole che potenzialmente due uomini potrebbero formare un nucleo familiare economicamente perfetto, avendo due salari ‘da uomo’. Tuttavia, due uomini che lavorano nel terzo settore non hanno avuto molto valore di fronte all’impiegata della banca che ha informato il mio compagno che un contratto di cooperativa, sebbene indeterminato, non è considerato affidabile, e che comunque il mutuo completo è destinato solo alle coppie. Sarà forse perché i lavori nel settore educazione e nel sociale sono considerati un poco ‘da donna’? Chi può dirlo. Sta di fatto che essere giovani, del sud e non eterosessuali a quanto pare costituisce un fattore di rischio finanziario per la banca. Meglio investire in armi e combustibili fossili il cui profitto è ‘sicuro’.
Altro fattore da considerare: spesso una persona della comunità LGBTQ ha un rapporto conflittuale o comunque non sempre limpido con la propria famiglia e questo rende difficile richiedere un supporto economico per comprare la prima casa insieme al proprio o alla propria partner. In uno stato, come l’Italia, dove la famiglia è ancora il principale ente assistenziale, rivendicare se stessi e rompere i legami significa anche abbracciare la precarietà. Questo significa dovercela fare da solə, impoverirsi pagando affitti, rinunciare alla casa come la si era immaginata, tutto per provare a vivere a pieno la propria relazione, creando un luogo dove possa fiorire libera. Insomma, abitare insieme diventa una vera scelta d’amore.
Doveroso è un disclaimer: nonostante tutto ciò, tutti gli ostacoli che ho cercato di tratteggiare qui sopra, la nostra situazione non è precaria, non rischiamo la povertà. Io vengo da una famiglia che potremmo definire di medio reddito; il supporto economico non mi manca. Io e il mio compagno abbiamo due stipendi fissi e dignitosi, abbiamo dei contratti regolari. Riconosciamo di avere dei privilegi. Evidenziare delle problematiche, in questo senso, non significa essere ciechi di fronte al fatto di essere comunque in uno stato di maggiore sicurezza e serenità rispetto ad altre persone, ma anzi significa portare alla luce meccanismi sistemici che ben si adattano ad altri tipi di discriminazione: razzismo, sessismo, ageismo, transfobia, antimeridionalismo. La mia analisi vuole essere intersezionale, come dovrebbe essere la nostra lotta.
In questa lotta l’abitare ha un ruolo centrale: la casa è una proiezione materiale di sé e del proprio sé in rapporto con ə altrə. E proprio come i nostri corpi, le nostre decisioni, i nostri diritti sono spesso limitati, compressi, costretti, così anche le nostre case. Non per tuttə è così, ovviamente. Ma credo ci sia una dinamica strutturale che alimenta questo stato di apolidia della comunità LGBTQ.
Per questo è importante occupare lo spazio, fare politica esistendo, abitando i luoghi. Perché i luoghi sono plasmati da chi li abita. Dobbiamo rendere le nostre case degli avamposti di resistenza, dobbiamo mettere radici nelle periferie, nelle campagne, nelle città.
L’abitare come gesto politico. Perché abitare la propria casa è essere capaci di sognarsi in quel luogo con quelle persone, felici. È anche educare la comunità, mostrarsi fierə e felici, rivendicare diritti, accogliere le varie possibilità dell’essere umani, riappropriarci delle nostre ricchezze, dei nostri capitali economici, umani, sociali e politici.
Non possiamo essere felici ovunque oggi. Ma potremmo esserlo, potranno esserlo le generazioni future se oggi, chi può, chi ne ha la forza e le possibilità, crea spazi di resistenza, abitare politico, ovunque.
Allora davvero ci sarà comunità, la nostra comunità.