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Di quando vai al tuo primo Pride

Di quando vai al tuo primo Pride

Articolo di Benedetta Geddo

Onestamente, non so perché io abbia aspettato così tanto tempo per andare a un Pride. O meglio, no, non è vero. Lo so perché fino a non troppi anni fa non avrei mai pensato di non essere eterosessuale (l’idea oggi mi fa ridere, ma che ci volete fare, ero una sweet summer child che non sapeva niente, un po’ come Jon Snow), e quella è una cosa. Poi mi vergognavo. Poi ero ancora troppo piccola e dovevo rendere conto ai miei genitori dei miei spostamenti. Poi ci sono stati gli esami universitari. Fatto sta che sono arrivata a ventun anni sempre restando a casa. E poi c’è stato Bossy, e tutta una nuova ondata di realizzazioni e awareness e empowerment, e non ci sono più state scuse.

Così mi sono pimpata la maglietta (con le parole di Lin-Manuel Miranda perché ‘love is love is love is love), ho provato — e fallito miseramente — a glitterarmi i capelli, ho preso acqua e colori per la pelle e sono salita su un regionale che per qualche strana coincidenza astrale non era nemmeno troppo caldo. Un’oretta di immancabili chiacchiere su Game of Thrones dopo, il gruppetto di torinesi sbarca a Centrale, si perde, fa commenti da provincia su quanto sia tutto così grande e ‘io di Milano mica sono esperta‘, ma riesce comunque a trovare l’inizio del corteo.  Colori sulla pelle, già appiccicate dal caldo, bandiere, brillantini, e si parte.

Descrivere la sensazione che ho provato marciando con lo striscione di Bossy (orgoglio nell’orgoglio) forse va oltre le mie capacità con le parole. È un senso di appartenenza e di rightness che ho provato poche altre volte nella mia vita. L’idea che ‘è proprio qui e ora e in questa strada con queste persone che devo essere in questo momento, e in nessun altro posto nell’universo‘. È guardarmi attorno e vedere sorrisi, balli, mani intrecciate, e anche il desiderio di resistere, di lottare, di continuare a farsi sentire e vedere. È non vergognarmi a far vedere le mie braccia scoperte, io, che mi sono sempre nascosta e che non sono proprio la migliore amica del mio corpo. È una ragazza che mi fa l’occhiolino e io che divento fucsia come una quattordicenne. È orgoglio, puro e semplice, e adesso che l’ho assaggiato e respirato una volta non ho nessuna intenzione di dimenticarmene finché campo.

Sono anche i commenti e gli Snapchat e i selfie, il gelato mangiato dopo, seduti sull’erba, gli adesivi attaccati alla maglia, la corsa in metropolitana per non arrivare tardi in Centrale. È sedersi sul sedile del treno con le gambe che non reggono più e il bisogno atavico di farsi una doccia che manco Daenerys Targaryen nella s2. E tutto questo, anche la stanchezza e il sudore, sono dettagli belli che si aggiungono ad un quadro già bello di suo, bello come l’arrivo del corteo sotto al palco e i discorsi e la musica e il gruppo di Guerriere Sailor che ballavano vicino a noi e che abbiamo poi incontrato anche sulla metro.

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Un pomeriggio passato come un sogno. O perlomeno come qualcosa di molto, molto diverso dalla realtà del mio paesino sperso nella Pianura Padana. E quando ci torni, in quel paesino della Pianura Padana, ti infili sotto la doccia fredda e lavi via tutto, il sudore, i glitter, la pittura sulla faccia e le scritte sulle mani. Ma l’orgoglio no, quello non lo lavi via. E quella parte di te che è cambiata, anche quella non viene lavata via, o cancellata dalla realtà di tutti giorni. Resta dentro e da mattoncino che era diventa una torre, un castello, una fortezza.

Dalla guglia sventola una bandiera rainbow. La stessa che terrò in mano io, al Pride dell’anno prossimo. E quindi arrivederci.