Gay Semiotics: l’abito come comunicazione nella comunità gay


Articolo di Nicola Brajato
La comunicazione, come l’esistenza stessa d’altronde, si basa su un concetto essenziale: la dialogicità. Non vi è comunicazione se non in un contesto relazionale: io e l’altro. L’atto comunicativo, in questa situazione, può avvenire in due modi ben distinti: verbalmente e non-verbalmente. Mentre il primo richiede l’uso del linguaggio come mezzo principale, il secondo avviene tramite diverse pratiche, come ad esempio quelle corporee, indumentali ed estetiche in generale.
Quante volte ci è capitato di camminare per strada e, nell’incrociare una persona, osservare un insieme fitto e complesso di valori simbolici, senza che questa persona ci abbia detto nulla? Questo perché, come ci insegna la Semiotica – disciplina che studia i fenomeni di significazione – sono plurimi i modi in cui si comunica, si significa qualcosa o si produce un oggetto comunque simbolico.
Nella dimensione non-verbale della comunicazione, il corpo gioca un ruolo fondamentale, in particolar modo l’indumento che lo ricopre, una superficie materiale che apre l’infinito panorama delle differenze tra corpo nudo e corpo adornato. La complessità dell’ultimo “denaturalizza” lo stato del primo, permettendo dunque il passaggio dal biologico al culturale.
Patrizia Calefato, semiologa presso l’Università degli Studi di Bari, parla del “corpo rivestito” come di un soggetto “in processo” che si costruisce attraverso l’aspetto visibile, il suo essere al mondo, il suo stile delle apparenze, poiché il vestire espone il corpo a una metamorfosi sempre possibile. La moda ha così reso il corpo discorso, segno, cosa.
Tornando alla comunicazione verbale, risultano interessanti in questa sede le procedure di legittimazione ed esclusione concernenti il linguaggio, poiché proprio questo dà forma e realtà a tutto ciò che ci circonda. Perché alla fine, se non se ne parla, non esiste. Pratiche che si applicano anche in materia di identità e sessualità. Uno degli aspetti più interessanti che riguardano l’uso del linguaggio e della comunicazione come procedura di riconoscimento è sicuramente quello legato all’omosessualità. L’esclusione discorsiva di questa realtà porta ad una conseguente invisibilità, “immaterialità” della dimensione omosessuale. E qualora se ne parli, lo si fa in termini scientifici, con accezioni per la maggior parte delle volte “devianti”, anormalizzanti. Un processo che attribuisce significazioni negative a tutte quelle parole contenute nel campo semantico denominato “gay”.
Nel corso della storia, dunque, in assenza di un approccio verbale pubblico e diretto, la comunicazione non-verbale risultava essere l’unico modo per “dare segnali” della propria esistenza, della propria identità. Così facendo, nella comunità gay si è sviluppata una semiotica specifica per l’identificazione tra i pari, in grado comunque di restare segreta (fino ad un certo punto) alla cultura egemonica. L’abito, in particolare, è stato uno dei primi metodi di riconoscimento per le varie comunità gay, già a partire dal diciassettesimo secolo. D’altronde, come sostiene la storica della moda Elizabeth Wilson, l’abito serve per “stabilizzare l’identità”, un processo che si situa a metà tra l’intimità e la dimensione pubblica.
Una consapevolezza della possibilità di una semiotica gay, e dunque della possibilità di produrre oggetti con determinati valori simbolici, emerge già alla fine del XIX secolo con lo scopo finale di attrarre altri individui dello stesso sesso o di rivelare la propria identità “nascosta”.Lo stesso Oscar Wilde e il suo circolo indossavano un garofano verde come indicatore della loro sessualità (S. Cole, 2000), e nel corso del Novecento sono stati numerosi gli oggetti simbolici “segreti”. Ad esempio, nei primi decenni del secolo, la cravatta rossa era uno dei segni omosessuali più conosciuti. In Sexual Inversion (1915) il medico britannico Havelock Ellis spiega come il fatto di indossare questo accessorio per strada fosse proprio un modo per attrarre altri “invertiti”.

Un altro significante, forse il più famoso nella storia del rapporto tra moda e identità gay, è rappresentato dalle scarpe scamosciate, specialmente in Inghilterra. Con l’adozione di queste calzature da parte della subcultura dei Teddy Boys negli anni ’50, si perde la connotazione omosessuale a favore di un’accezione più ribelle.
Negli anni ’40 uno dei trend più diffusi nella comunità gay era l’uniforme, uno dei capi più immediatamente disponibili per molti uomini grazie al Servizio Civile durante la Seconda Guerra Mondiale, ma abbinato con accessori nel complesso cacofonici, come scarpe e calzini a contrasto.
La cultura camp ha in qualche modo da sempre definito e farcito l’estetica gay. Definita da Susan Sontag come «una visione del mondo in termini di stile, ma di uno stile particolare. È l’amore per l’eccessivo, per l’eccentrico, per le cose–che–sono–come–non–sono» , questa sensibilità ha definito l’andamento di uno stile omosessuale nel tempo. In particolar modo nei famosi Drag Balls, dove l’inversione delle convenzioni di genere veniva messa in scena davanti ad un pubblico curioso, normato e non.
Dall’inizio del secolo fino agli anni ’60, lo stereotipo pubblico del maschio omosessuale era quello della queen effeminata, in gergo fairy, immagine che cambiò con il passaggio agli anni ’70. L’adozione di abiti da lavoro e l’esagerazione degli atteggiamenti tipicamente maschili permisero una versione ipermascolinizzata dell’uomo gay, dando così vita ad un nuovo stereotipo estetico, definito the clone.
Proprio questa rappresentazione rientra come elemento d’analisi in uno dei primi studi sulla semiotica gay, condotto da Hal Fischer: Gay Semiotics. A photgraphic study of visual coding among homosexual men (1977).
Nel febbraio del ’77, lo studioso inizia a lavorare ad una serie di fotografie che in qualche modo corrispondono a dei segnali che stava già notando nel quartiere dove viveva a San Francisco. Nacque così uno studio fotografico attento ed esaustivo su una vera e propria semiotica gay che utilizzava il corpo e l’abito come veicoli comunicativi principali. Dopo aver elencato una serie di prototipi sessuali e di stile all’interno della cultura gay da lui definiti Archetypal Images (classical, natural, western, urban, leather), l’obiettivo di Fischer passò ad immortalare quei segni curiosi e vibranti che silenziosamente comunicavano molto più di quanto una parola potesse rivelare.
Nella Gay Semiotics analizzata da Hal Fischer, il corpo veniva diviso in due parti, dove la sinistra rappresentava l’aggressività e il ruolo attivo, mentre la destra il ruolo passivo. Dunque il corpo stesso diventava un territorio comunicativo che sulla base degli accessori utilizzati variava il messaggio.
Gli oggetti adottati (in questo caso possiamo parlare di significanti) erano principalmente tre: fazzoletti, chiavi e orecchini.
- il fazzoletto presentava tre varianti e tre significati diversi in base al colore. Il fazzoletto blu comunicava una propensione verso il sesso anale (quindi con un’accezione attiva se posizionato nella tasca sinistra posteriore e passiva se posizionato nella tasca destra). Il colore rosso indicava un interesse nei confronti della pratica del fisting mentre il nero comunicava la disponibilità a pratiche sadiche e masochiste. Infine, il colore giallo rappresentava la disponibilità a quelli che in gergo venivano definiti water sports, ovvero attività sessuali eroticamente stimolate dalla presenza dell’urina dei partecipanti.
- Le chiavi, nello specifico indossate appese ad un passante dei pantaloni, erano uno dei significanti più comuni. Nonostante l’orientamento della suddivisione corporea rimanesse lo stesso, questo accessorio non indicava tipi specifici di attività sessuali come il fazzoletto.
- Infine troviamo l’orecchino, spesso utilizzato come segno, del quale resta comunque vago il significato. A volte utilizzato soltanto come moda, questo accessorio risultava essere un significante fuorviante poiché vari sono i suoi usi e significati.
Lo studio di Hal Fischer proseguì andando più a fondo, rintracciando l’origine dei vari significanti nelle loro subculture d’appartenenza, ma per spiegarlo in modo esaustivo servirebbe un articolo solo per questo.
La ricostruzione fotografica e il breve excursus storico che la precede vogliono dimostrare come l’abito non sia soltanto una superficie tessile, una copertura, ma un universo ricco di simboli e di connotazioni culturali. Mi piace soprattutto vedere la moda in questo contesto come un’ancora di salvataggio dei reietti, degli esclusi. Dove la mancanza del discorso ha portato all’invisibilità, al non riconoscimento, l’abito e l’estetica si sono posti come una soluzione efficiente e a portata di tutti.
L’abito, e tutto ciò che ci ricopre, non sono che le forme con cui i nostri corpi entrano in relazione tra loro e con il mondo. Dove la parola manca, subentra la moda (e non solo) a comunicare. Un mondo fatto di forme e stili, ma anche di dimensioni plurime dove essere è possibile, un essere materiale e vivente, che si afferma al di là dei limiti e delle esclusioni discorsive.