Articolo di Pietro Balestra
La tortura è la distruzione deliberata della personalità e della dignità della vittima attraverso l’inflizione di gravi sofferenze fisiche o psichiche. L’aguzzino vuole consapevolmente arrecare uno sconfinato dolore all’essere umano che è in suo potere, impossibilitato a reagire e a fuggire, fosse pure dandosi la morte. La tortura è il mezzo tramite il quale egli vuole ancora di più, consapevolmente (o, inconsapevole, prendendo parte a un processo che pretende di), annientare l’Altro come persona.
Il silenzio della tortura: Contro un crimine estremo – Marina Lalatta Costerbosa – 2016 – pp. 9, 10
Così definisce la tortura Marina Lalatta Costerbosa, professoressa di Filosofia del Diritto e Bioetica presso l’Università degli Studi di Bologna, nel suo più recente saggio Il silenzio della tortura: Contro un crimine estremo, edito da DeriveApprodi a Roma.
La tortura ha scopo, da un lato, giudiziario, nella misura in cui è strumento volto a raccogliere confessioni e informazioni. Dall’altro politico, ma non – come sarebbe facile pensare – nel senso che sia conveniente per l’autorità presentarsi come un’intransigente punitrice; al contrario, lo stato che ricorre alla tortura punta a raccogliere un fascio di confessioni da mostrare al suo popolo, col preciso intento di creare un nemico che attenta alla vita dei singoli e, conseguentemente, presentare se stesso come protezione e salvezza, come ciò che si sconfiggerà suddetto nemico per il bene di tutti.
Tuttavia, il primo, lo scopo giudiziario, è solo di facciata: se torturata, una persona sarebbe disposta a confessare qualsiasi cosa, pur di vedere finire quella sofferenza; è fuor d’ogni dubbio, quindi, che la tortura è uno strumento prettamente politico.
Partendo da questi presupposti, qual è oggi (e qual era ieri) il senso di punire con la tortura le persone omosessuali e le donne, non in quanto persone, ma in quanto donne?
Abbiamo intervistato la professoressa Lalatta, affinché fosse lei a far luce su questo interrogativo.
1. Quale immagine punta a dare di sé il governo che punisce con la tortura il crimine di omosessualità?
La tortura nella storia ha avuto una finalità innanzitutto e dichiaratamente giudiziaria. Eppure è possibile evincere dalla sua stessa espansione e dal suo stesso uso – pensiamo al suo impiego da parte dell’Inquisizione e alla lunga stagione della persecuzione delle streghe tra XVI e XVII secolo in Europa – un tratto anche squisitamente politico, la convenienza politica della sua pratica. In questo senso la tortura, politicamente, è funzionale al consolidamento di un’autorità che cerca di coagulare il consenso attraverso la creazione e la promozione surrettizia di paure sociali. L’invenzione di un nemico interno o esterno è, soprattutto dalla prima modernità in poi, una strategia di dominazione che il potere ha posto in essere per giustificare il proprio ruolo, il proprio primato, l’essere indispensabile e necessario per la sicurezza. L’omosessualità costituisce in questo scenario un’opportunità di convergenza di paure e consenso, alimentati dall’enfatizzazione e dalla costruzione di stereotipi tipicizzanti e ontologizzanti volti alla discriminazione, alla demonizzazione, alla strutturazione di un capro espiatorio socialmente efficace. La tortura è uno strumento che si presta a essere il braccio armato anche di questo meccanismo di oppressione e di violenza sociale estrema.
2. D’altro canto, come reagisce a ciò il popolo? Quale immagine ha del governo?
La tortura ha una caratteristica tra tutte che la rende efficace e perniciosa proprio sotto il profilo dell’opinione pubblica, della mentalità dominante: essa è generatrice di menzogna. La tortura non porta alla verità ma alla bugia. La tortura fa parlare nel senso che costringe a dire qualunque cosa, indipendentemente dal rapporto che questo qualcosa abbia con la verità. In tal senso essa pone a tacere, porta al silenzio rispetto al vero. Il popolo diventa vittima e poi si trasforma in complice, cade nella trappola della tortura e crede, o sceglie di credere, nella rassicurante immagine forte che il potere dà di se stesso.
3. Sotto questi aspetti (l’immagine che il governo vuole dare di sé e la percezione del popolo), ci sono differenze tra quello che poteva essere il Regno Unito nel secolo scorso – del quale tanto si parla, perché per reato di omosessualità furono lì puniti con la tortura anche, tra gli altri, Oscar Wilde e Alan Turing -, e i paesi che ancor oggi ricorrono alla tortura contro il reato di omosessualità (si parla di 76 stati in tutto)?
Il nodo cruciale penso sia quello della democrazia come processo al quale si deve poter tendere nel perseguimento dell’ideale democratico, un ideale di libertà e non di mera deliberazione a maggioranza. Il percorso del Regno Unito, le battaglie anche legislative e teorico-giuridiche ivi combattute hanno sortito effetti importanti. Penso al dibattito tra il filosofo del diritto di Oxford, Hart, e il conservatore Sir Patrick Devlin proprio sul rapporto tra l’ordine legale di un paese e l’oppressione sociale che una intromissione del diritto nella sfera morale personale non può che provocare. Era una discussione serrata e teoricamente assai alta precisamente anche attorno alla questione della depenalizzazione dell’omosessualità. I Paesi nei quali oggi l’omosessualità è ancora ritenuta un reato sono lontani da un percorso democratico che possa dire di aver superato anche solamente la soglia minima della civiltà democratica.
4. Oggi la tortura è riconosciuta come crimine contro l’umanità, eppure viene ancora impiegata in alcuni stati per punire il reato di omosessualità e non solo. Quali enti e persone e in che modo si stanno occupando della questione?
Le normative e le istituzioni internazionali, in particolare la Convenzione contro la tortura dell’ONU del 1984, il Tribunale Penale Internazionale, attivo dal 2002, la Corte di Strasburgo per quanto concerne l’Europa rappresentano attualmente l’unica tutela che può darsi contro la minaccia sempre incombente della tortura, pur nei limiti, in termini di efficacia, che sono connaturati al diritto internazionale (la sua natura convenzionale, l’assenza di istanze sovraordinate che possano rendere operativi veti e denunce, la strutturale precarietà delle adesione agli accordi e la sempre fattualmente possibile deroga ai vincoli anche quando sottoscritti).
5. Il tema della tortura è strettamente legato al termine del genocidio. Perché, nella definizione di genocidio del 1948, sono esclusi i gruppi di persone aventi stesso orientamento e/o identità sessuale? La questione è oggi oggetto di dibattito?
Il dibattito sulla definizione di genocidio è ancora in corso, poiché pone problemi specifici di ordine politico, geopolitico e giuridico. Ma sulla sfondo intercetta un problema connesso al tema della definizione di fattispecie giuridiche di reato in quanto tali. Definire un crimine con finalità giuridiche e penali implica comprendere diverse fattispecie di comportamento criminoso. Nel momento in cui si perimetrano queste condotte d’azione ci si pone nella condizione di poterle sanzionare; tuttavia, al contempo si lasciano cadere fuori da tale circonferenza altre azioni che dunque vengono declassate a reati minori oppure neppure registrate come criminose. Allargare lo spettro dei casi consente di punire più azioni ma rischia di annacquare l’intento e l’effetto punitivo inizialmente ricercato. L’attività del definire in questo specifico contesto è assai ardua e complessa quando non dilemmatica.
6. Si parli ora di donne. Ci sono oggi donne torturate in quanto donne? Sono riconosciuti, cioè, in determinati paesi, crimini prettamente femminili puniti con la tortura?
La tortura non è una punizione specifica per crimini femminili, è purtroppo uno strumento violentissimo (il più violento) che investe anche le donne; che investe persino i bambini, i deboli tra i deboli, i più deboli e i più innocenti tra tutti. Lottare contro la tortura significa – a mio avviso – lottare nel tempo, ingaggiare una lunga lotta contro la violenza sui bambini perpetrata da uomini e da donne, da padri e da madri, dalla società tutta.
7. Prima si è parlato dell’immagine che lo stato che tortura punta a dare e la percezione che il popolo ne ha. Quel che si è detto riguardo alla tortura contro il reato d’omosessualità, vale anche per i crimini delle donne?
Sì, è una strategia che si applica perversamente (sotto il profilo morale), razionalmente (sotto il profilo politico) a tutte le categorie o i gruppi che possono funzionalmente fungere da catalizzatore di rabbia, paura, violenza.
8. L’immaginario comune vede la donna come incapace di torturare. Si hanno invece testimonianze di donne torturatrici? In cosa si differenziano dai colleghi uomini e in cosa, invece, sono simili?
È uno dei tanti stereotipi non ingenui, non neutri, purtroppo riconducibili a finalità egemoniche, dalle quali le donne non sono affatto escluse. Dire “donne” significa avvalersi di una generalizzazione molto pericolosa per le donne stesse, non per tutte, ma certo per quelle davvero deboli, per quelle prostrate dalle violenze che subiscono ogni giorno, per quelle che si trovano abbandonate alla fatica e alla disperazione, per quelle che vorrebbero essere madri amorevoli, ma non è dato loro per miseria, per rabbia, per desolazione morale. La migliore, ma forse non la più remunerativa e conveniente, battaglia per le donne è la battaglia per i bambini e per il rispetto assoluto a loro dovuto in quanto bambini. Un bambino davvero rispettato sarà un adulto che non uccide, che non stupra, che non sfigura.
Ma tornando a noi e alla tortura, le donne sono protagoniste quanto gli uomini delle torture, è un dato di fatto. Le donne torturano con pari crudeltà. E ciò è testimoniato e documentabile anche se solo ricordiamo i più recenti ed eclatanti casi di tortura in Paesi democratici. Abu Ghraib per le torture statunitensi, la Scuola Diaz-Pertini per non dimenticare le più recenti, accertate (condannate dalla Corte di Strasburgo nel 2015) torture nostrane.