Articolo di Alessandra Vescio
Il 2019 è un anno importante per la comunità LGBTQ+, perché ricorre il cinquantesimo anniversario dei Moti di Stonewall. Di cosa si tratta e cosa ha comportato questo evento? Scopriamolo insieme.
IL CONTESTO
Negli anni Sessanta, in 49 Stati americani l’omosessualità era illegale e i membri della comunità LGBTQ+ rischiavano costantemente l’arresto (e la vita). Per questo motivo, iniziarono a nascere le prime associazioni di protesta e i primi bar gay: la comunità LGBTQ+ cercava e aveva bisogno di un rifugio, di un luogo in cui poter essere se stessa senza sentirsi sempre minacciata e in pericolo. Nell’aprile del 1969 Leo E. Laurence e Gayle Whittington fondarono il Committee for Homosexual Freedom (CHF), dopo che entrambi erano stati licenziati in seguito alla pubblicazione di una loro foto abbracciati sul Berkeley Barb. Non avendo trovato il supporto necessario neppure dalla Society for Individual Rights, per il cui organo di stampa Laurence lavorava, i due decisero di fondare un nuovo comitato. Uno degli attivisti del CHF, Carl Wittman, redasse il “Refugees from Amerika: A Gay Manifesto”, che invitava alla lotta e che venne poi considerato “la bibbia della liberazione degli omosessuali”.
Nel frattempo, anche la Mattachine Society, movimento definito “omofilo” e che aveva l’obiettivo di difendere i diritti degli omosessuali, iniziava a ricevere le prime critiche. Considerato troppo cauto, fu presto sostituito da altre associazioni segrete più improntate all’azione e che spesso traevano ispirazione dalle organizzazioni di protesta dei neri nate in quegli anni.
Fino a soli tre anni prima, inoltre, vigeva il divieto di vendere alcolici agli omosessuali, per “questioni di ordine pubblico”. Il termine utilizzato era un vago quanto tagliente “disorderly” (caotico, riottoso), che suggeriva un’idea di potenziale pericolo che la vendita di alcol agli omosessuali avrebbe provocato. Addirittura, i proprietari dei locali rischiavano di perdere la loro licenza, qualora fossero stati scoperti a infrangere la legge. Quando nel 1966 questo divieto cadde, alla comunità LGBTQ+ fu concesso di bere nei locali, purché non esprimessero pubblicamente e apertamente il loro orientamento sessuale. Mutilati nella loro identità, i locali gay erano perciò l’unico rifugio in cui potevano sentirsi al sicuro.
In questo contesto così rischioso e discriminante, ad approfittare di una falla del sistema fu – com’era stato all’epoca del Proibizionismo – la mafia, che vide nella comunità LGBTQ+ un vero e proprio tesoro da sfruttare. La famiglia Genovese, nota per le sue attività criminali e mafiose, divenne infatti proprietaria di diversi locali gay a Greenwich Village; aperti spesso come “bottle club”, ovvero locali privati che non necessitavano la licenza per vendere alcolici perché si presupponeva che gli avventori avrebbero portato da bere da sé. Tra i locali di quella che divenne la strada gay di New York, il più famoso e frequentato era sicuramente lo Stonewall Inn.
Lo Stonewall Inn non era un locale come gli altri. Aperto anch’esso come “bottle club”, era il luogo più amato dalla comunità queer perché qui si poteva anche ballare. Succedeva spesso che la polizia facesse irruzione – qui, come in altri locali gay – per controllare la situazione, ma per via di accordi più o meno segreti tra la famiglia mafiosa proprietaria del locale e gli agenti corrotti, di solito le retate erano concordate coi gestori dei locali, si verificavano a inizio serata e finivano anche molto presto. L’obiettivo ovviamente era quello di incutere paura negli avventori, minacciarne la tranquillità e la sicurezza e mostrare pubblicamente il pugno duro di una legge discriminante, pur non intaccando i convenienti rapporti con le famiglie mafiose. Nonostante tutto, i locali gay rappresentavano un rifugio importante per la comunità LGBTQ+, anche quando la polizia provava a rompere un equilibrio precario, anche quando gli stessi proprietari dei bar minacciavano gli avventori di rivelare pubblicamente il loro orientamento sessuale e di metterli dunque in pericolo.
I FATTI DI STONEWALL
Quello che successe la notte del 28 giugno 1969 fu perciò spiazzante e improvviso, una conseguenza inaspettata ma inevitabile in un contesto così complesso.
Era passata da poco l’1 di notte e allo Stonewall Inn si ballava, si beveva, ci si divertiva. Sembrava una notte come le altre, una di quelle da trascorrere insieme a cercare rifugio e distrazione da un mondo che emarginava e faceva paura. Eppure così non fu, quando all’improvviso irruppe la polizia. Gli agenti entrarono nel bar, chiesero la licenza per vendere alcolici e arrestarono 13 persone tra dipendenti e avventori. Le motivazioni dietro l’arresto erano principalmente due: l’articolo 240.35 della quarta sezione del codice penale di New York e la ancora poco chiara questione relativa alla vendita degli alcolici agli omosessuali. Per quanto riguarda l’articolo 240.35, questo autorizzava l’arresto di coloro i quali avessero addosso meno di 3 elementi considerati “gender appropriate” e che presentassero “unnatural attire or facial alteration”: si racconta che quella notte le poliziotte portarono in bagno le drag queen e le cross dresser per verificare il loro sesso.
Nonostante le irruzioni della polizia fossero – come si diceva – una prassi, quella notte nell’aria si percepì qualcosa di diverso. L’invasione arrogante nel bel mezzo di una serata, gli atteggiamenti violenti, il desiderio evidente di fare a pezzi anche i luoghi considerati sacri per generare nelle persone più deboli un’enorme senso di solitudine e insicurezza: fu questo a scatenare gli animi degli avventori che all’improvviso, stanchi di arrendersi a ogni forma di angheria e umiliazione, reagirono con forza. La storia non riporta chiaramente ciò che fece scattare la scintilla della ribellione. Qualcuno dice che sia stato l’arresto violento di una donna, portata via in manette e colpita in testa, e che reagì mordendo un agente della polizia. Altri suggeriscono che a dare il via alla lotta sia stato il lancio di una bottiglietta da parte della drag queen transgender Sylvia Rivera o della pietra tirata dall’attivista Marsha P. Johnson. Qualcuno addirittura suggerì una correlazione tra il funerale della cantante e icona gay Judy Garland, avvenuto quel giorno, e la rabbia esplosiva della notte degli scontri. Tanta è la confusione sui dettagli, quanta la potenza dell’evento: un enorme atto di ribellione, una rivolta spaventosa e reale di chi è ormai stanco di sopportare e non reagire.
Un profondo senso di solidarietà si estese quella notte tra gli avventori dello Stonewall, il vicinato e tutta la comunità LGBTQ+ che, chiamata in aiuto, decise di prendere parte alla lotta. Bottigliette, monetine, pietre lanciate, lampioni distrutti, macchine fracassate: la violenza di quella lotta, con le urla “gay power” a fare da sfondo, proseguì a intermittenza per cinque lunghe notti.
COSA ACCADDE DOPO STONEWALL
Le conseguenze di quelli che sono passati alla storia come I Moti di Stonewall sono state enormi. In America e nel mondo, nacquero diversi gruppi e associazioni in difesa dei diritti degli omosessuali e l’attivismo prese la forma della protesta agguerrita. Un anno dopo, precisamente il 28 giugno 1970, a New York venne organizzata una marcia a Central Park per commemorare i fatti dell’anno precedente: quella parata, che prese il nome di Christopher Street Liberation Day, dal nome della via dello Stonewall Inn, è in assoluto riconosciuto come il primo Gay Pride della storia.
In occasione di quello e di altri eventi che la comunità LGBTQ+ newyorkese stava organizzando per commemorare i Moti di Stonewall, l’attivista Craig Schoonmaker propose di sostituire lo slogan “Gay Power” con “Gay Pride”. Il motivo, a suo dire, era semplice: le persone che hanno il potere sono poche, ma tutti possono avere l’orgoglio nel suo significato di autostima e fiducia in sé. In un’intervista del 2015 rilasciata a Helen Zaltzman di “The Allusionist”, Schoonmaker ha detto: “La vergogna è il veleno, l’orgoglio è l’antidoto”.
Il 28 giugno 1970 anche a San Francisco, Los Angeles e Chicago si svolsero manifestazioni in ricordo dei Moti di Stonewall, trasformando quella commemorazione in un appuntamento fisso. In occasione della parata di San Francisco del 1978 e su suggerimento dell’allora consigliere comunale e attivista in difesa dei diritti degli omosessuali Harvey Milk, l’artista Gilbert Baker insieme a 30 volontari realizzò quello che diventò presto il simbolo del Pride, ovvero la bandiera arcobaleno. La prima “rainbow flag” era composta da 8 strisce colorate (oggi ridotte a 6) e a ciascuna di esse era stato attribuito un significato: “il rosa per il sesso, il rosso per la vita, l’arancione per la guarigione, il giallo per la luce del sole, il verde per la natura, il turchese per l’arte, l’indaco per l’armonia e il viola per lo spirito”.
Intanto, anche in Italia la comunità LGBTQ+ iniziava a dare vita ad azioni di protesta impattanti e diverse, come la prima manifestazione contro la violenza nei confronti degli omosessuali che avvenne a Pisa il 24 novembre 1979. Il primo Pride ufficiale invece risale al 2 luglio 1994, a Roma.
L’11 Giugno 1999 l’allora Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha proclamato giugno il Gay and Lesbian Pride Month, ridefinito poi dal Presidente Barack Obama nel giugno 2009 come il Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender Pride Month. Il 24 giugno 2016, al suo secondo mandato da Presidente degli Stati Uniti d’America, Obama istituì lo Stonewall Inn Monument per i diritti LGBTQ+. Notizia recente è che alle attiviste e protagoniste dei Moti di Stonewall Marsha P. Johnson e Sylvia Rivera sarà dedicato un monumento nei pressi dello Stonewall Inn, previsto per il 2021: si tratta della prima installazione dedicata a persone transgender a New York e, non solo avrà lo scopo di celebrare il loro attivismo pionieristico ma anche di accendere i riflettori sull’esistenza, il ruolo e la lotta quotidiana delle donne trans non bianche, come è stato detto dai sostenitori dell’iniziativa.
Un’altra importante conseguenza dei Moti di Stonewall è senza dubbio l’aver dato voce anche ai singoli gruppi all’interno della comunità LGBTQ+. Negli anni Novanta ad esempio è nato il Movimento omosessuale DC Black and Lesbian Gay Pride Day, che rappresenta la comunità nera LGBTQ+, e più recentemente sono nate numerose associazioni con lo scopo di sostenere e preservare la comunità queer latina.
Conoscere la storia dei Moti di Stonewall ci permette di capire il ruolo dei Pride oggi. Partecipare oggi al Pride infatti vuol dire prendere parte a una festa, ma anche ricordare. Ricordare chi ha lottato duramente, chi ha rischiato e perso la vita, chi è stato umiliato, calpestato ed emarginato. Chi ancora oggi ha paura di uscire di casa, chi da casa viene mandato via, chi subisce discriminazioni sul lavoro, a scuola, tra gli amici, per strada. Chi ha paura. Partecipare oggi al Pride vuol dire affermare la propria esistenza, rivendicare il diritto a essere chi si è, senza doverne subire le conseguenze. I Pride oggi sono commemorazione, celebrazione, ricordo e ribellione. Desiderio di libertà. E conoscerne la storia è il miglior modo per iniziare a lottare.