Articolo di Marika Ambrosio
Uno studio della Commissione Europea evidenzia che in media negli ultimi anni tre posti di lavoro su quattro sono occupati da donne. Un grande traguardo rispetto al passato! La verità è che dietro questa facciata di progresso restano camuffati casi di disuguaglianza e discriminazione.
L’ambiente lavorativo, come molti altri luoghi sociali, è spesso scenario di discriminazioni per tutte le categorie ritenute “meno meritevoli”, tra cui la categoria femminile.
A testimonianza di ciò c’è il fatto che la maggioranza dei posti dirigenziali siano occupati soprattutto da uomini e non da donne. Altro elemento da non sottovalutare è la differenza tra lo stipendio percepito da un uomo e quello pagato ad una donna, che spesso è notevolmente inferiore. Tanto che qualche volta accade che un’azienda preferisca assumere una donna e non un uomo, perché a quest’ultimo spetterebbe un salario più alto.
È risaputo che la donna nel mondo del lavoro non ha mai avuto vita facile, vuoi perché considerata per anni erroneamente meno capace dal punto di vista intellettuale, vuoi perché avere una donna in azienda significa essere consapevoli del fatto che questa, poiché tale, potrebbe manifestare esigenze diverse legate ad una presunta maternità.
Ed è proprio la maternità a rappresentare il maggiore ostacolo che si frappone tra una donna e la sua carriera. Può un evento così importante, considerato da molte donne come una tappa principale nel proprio percorso di vita, trasformarsi in fonte di svantaggio in termini di affermazione professionale? Purtroppo la risposta è sì.
In teoria, la legge proibisce ai datori di lavoro di licenziare una donna durante il periodo di gravidanza. A stabilirlo è il d.lgs. 151 del 2001, all’art. 54. Il divieto si estende dall’inizio della gravidanza fino al primo anno di vita del bambino, fatta eccezione per alcuni casi:
1. a causa di una colpa grave della lavoratrice (furto, mancato adempimento dei compiti ..);
2. a causa della cessazione dell’attività dell’azienda;
3. nel caso di contratti a tempo determinato, quando la dipendente ha esaurito la sua funzione;
4. a causa dell’esito negativo del periodo di prova.
Ai sensi dell’art. 54, comma 9, della legge, il divieto di licenziamento opera anche nel caso di adozione o di affidamento. In caso di licenziamento, il comma 5 dell’art. 54 stabilisce che questo, intimato nel periodo in cui vige il divieto, deve considerarsi nullo.
Nel 2012 la clausola shock della Rai fece scatenare un boom di polemiche: “Nel caso di sua malattia, infortunio, gravidanza, causa di forza maggiore od altre cause di impedimento insorte durante l’esecuzione del contratto, Ella dovrà darcene tempestiva comunicazione. Resta inteso che, qualora per tali fatti Ella non adempia alle prestazioni convenute, fermo restando il diritto della Rai di utilizzare le prestazioni già acquisite, le saranno dedotti i compensi relativi alle prestazioni non effettuate. Comunque, ove i fatti richiamati impedissero a nostro parere, il regolare e continuativo adempimento delle obbligazioni convenute nella presente, quest’ultima potrà essere da noi risoluta di diritto, senza alcun compenso o indennizzo a suo favore”.
Clausola retrograda che molte giornaliste Rai hanno dovuto firmare, seppure non si sia mai verificato (per fortuna) un caso in cui tale clausola sia stata davvero messa in atto.
Gli imprenditori sono riusciti spesso ad aggirare il divieto espresso dalla legge. Per molti anni il metodo preferito è stato quello delle cosiddette dimissioni in bianco.
Che cosa sono esattamente?
Al momento della firma del contratto di lavoro, all’assumendo, era fatto firmare anche un altro foglio di dimissioni senza data. Dimissioni che il datore di lavoro tirava fuori dal cassetto al momento più opportuno. E, casualmente, questo momento opportuno coincideva il più delle volte con l’inizio della gravidanza.
Negli ultimi anni su questo fronte ci sono stati notevoli miglioramenti. Infatti, il Ministero del Lavoro ha predisposto il nuovo modello di dimissioni, risoluzione o revoca del rapporto di lavoro, da comunicare esclusivamente online. Fac-simile e istruzioni sono contenuti nel decreto 15 dicembre 2015 (Gazzetta Ufficiale 11 gennaio 2016), che applica le disposizioni previste dall’articolo 26 del dlgs 151/2015 attuativo del Jobs Act sulle semplificazioni dei rapporti di lavoro. Il provvedimento attuativo è in vigore dal 12 gennaio 2016 ma la piena operatività della nuova procedura è fissata dal 12 marzo dello stesso anno.
Purtroppo, nonostante questi passi in avanti, ancora oggi le donne hanno paura di comunicare la gravidanza al datore di lavoro. Si sa, una scusa per licenziare si trova facilmente, soprattutto in una situazione economica nazionale abbastanza incerta.
L’alta discriminazione nei confronti delle donne nel mondo lavorativo è tangibile già in fase di colloquio. Non importa quanto possa essere brillante il curriculum di una donna, arriverà sempre e comunque quella fatidica domanda, come una doccia fredda “Ha intenzione di sposarsi o di avere figli nel prossimo anno?”. Domanda che, il più delle volte, lascia perplesse le candidate, pronte a rispondere seppur con aria sgomenta.
Quante volte abbiamo sentito storie di conoscenti costrette a mentire sui loro progetti futuri pur di ottenere quel tanto agognato posto di lavoro? Quante volte ci è capitato di sentire storie di donne licenziate dopo anni di diligente lavoro solo perché erano in dolce attesa?
Ma perché le aziende sono così restie nell’assumere una donna che ha intenzione di sposarsi e avere figli? La domanda giusta da porci è: quanto costa la maternità alle imprese?
In Italia la maternità rappresenta un’uscita considerevole per le aziende. Giuseppe Cusin ha calcolato il costo sostenuto da un’impresa per il congedo di maternità di una lavoratrice ed è emerso che nel 2008 era pari a 5.822 euro. In più, vi sono i costi per i riposi giornalieri e le astensioni facoltative dal lavoro. A tutto ciò bisogno aggiungere le spese necessarie per assumere e formare un’altra persona che andrà a ricoprire il vuoto lasciato dalla donna in maternità. Ecco perché le imprese tendono ad assumere uomini e non giovani donne. L’Inps ricopre solo una parte delle spese, mentre la restante parte è a carico dell’azienda. Questa “restante parte”, sommata alle altre tasse che l’azienda deve versare allo Stato e sommata agli altri costi, va ad incidere economicamente in maniera non trascurabile sull’impresa. La legge prevede, inoltre, che il datore di lavoro anticipi per conto dell’Inps il trattamento economico riservato alle donne in maternità. Tuttavia, molti datori di lavoro ritardano il pagamento, si rifiutano di pagare o trattengono una parte della somma dovuta.
La responsabilità di questa situazione difficile per le donne è da attribuire in larga parte allo Stato. Una soluzione sarebbe quella di indennizzare completamente le imprese per i costi della maternità delle lavoratrici con contratto a tempo indeterminato.
Basta dare un’occhiata sul web e leggere le testimonianze delle neomamme alle quali è stato portato via il posto di lavoro per la sola colpa di aver dato alla luce un figlio. Sono storie tutte simili tra loro, cliché che si ripetono negli anni in diversi luoghi, ma che portano ad un unico risultato: la lotta costante che le donne devono affrontare nell’ambiente lavorativo e il loro volersi affermare professionalmente tra la paura di essere licenziate e la gioia di diventare mamme.