“La storia ci dice che non è affatto cosa scontata che lo spettacolo della miseria spinga gli uomini alla pietà.”
Questa frase di Hannah Arendt – che oggi come non mai suona incredibilmente attuale – rappresenta anche una fulgida sintesi dell’impegno civile di cui si fa carico il nuovissimo docufumetto “Lamiere: storie da uno slum di Nairobi”, edito da Feltrinelli Comics.
Quando si parla di graphic journalism, la prima opera a cui si pensa è il densissimo “Palestina” di Joe Sacco, mentre qui in Italia il caso letterario più noto è il “Kobane Calling” di Zerocalcare, con i suoi racconti dal fronte del Rojava. Si tratta effettivamente di veri e propri documentari a fumetti, dove alle riprese di una videocamera si sostituiscono degli appunti su carta: se da un lato il ricorso al disegno può suggerire una minore oggettività in quanto la realtà viene evidentemente mediata dallo sguardo dell’autore, dall’altro l’espressività del medium – e la sua onestà nel dichiarare implicitamente fin da subito che quanto stiamo vedendo è frutto di un’interpretazione personale – rende l’esperienza vissuta ancora più vivida ed empatica.
Nel caso di Lamiere gli autori sono ben tre, tutti con un sontuoso curriculum: ai testi troviamo Danilo Deninotti, con alle spalle delle notevoli biografie musicali a fumetti (recuperate “Quando ero un alieno”, forse l’opera più rispettosa della poetica di Kurt Cobain che mai vi capiterà di leggere) e Giorgio Fontana, Premio Campiello nel 2014 con quel gioiello di impegno civile che è “Morte di un uomo felice”. Entrambi sono sceneggiatori regolari di “Topolino”. I disegni sono invece di Lucio Ruvidotti, tra i fondatori del collettivo di autori indipendenti “Cargo” e autore fra gli altri del graphic novel “Miles. Assolo a fumetti”.
I tre raccontano il loro viaggio a Nairobi dove, ospitati dal team della ONG Rainbow for Africa, documenteranno la vita dello slum “Deep Sea”, baraccopoli in cui la densità di popolazione è direttamente proporzionale al disagio sociale.
Ora, ci sono molte ragioni per cui Lamiere è una lettura necessaria.
Innanzitutto, pone l’accento su una realtà mediaticamente poco coperta come quella di chi vive ai margini di un’Africa industrializzata e comunemente ritenuta più emancipata. A conti fatti sembra di vivere in una distopia, ma con la differenza che quanto viene descritto avviene qui e ora. Come in un “Cecità” di Saramago, vediamo che dalla negazione dei diritti essenziali e dallo squilibrio di potere deriva una società profondamente ingiusta, dove i privilegi che noi occidentali diamo per scontati (l’acqua, l’elettricità) diventano merce ambita. L’unica scintilla di sopravvivenza è legata alla stoica intraprendenza dei singoli, soprattutto donne (sono loro che scortano i tre autori nello slum perché gli uomini “spesso fanno una pessima figura: sono ubriachi o assenti”), con il prezioso supporto della ONG.
È poi notevole come Lamiere riesca a saltare con intelligenza dal dettaglio particolare alla considerazione universale. Penso ad esempio a una sequenza in cui una donna in ospedale ringrazia Giorgio per averle chiesto il nome della sorella (Dayana), che in quel momento sta venendo operata. Un episodio microscopico che urla a squarciagola il bisogno di queste persone dimenticate dalla narrazione quotidiana: esistiamo, siamo individui, abbiamo la nostra identità, un vissuto, affetti e aspirazioni.
Anche i nomi hanno un ruolo nell’emancipazione, perché il linguaggio cambia la nostra percezione del mondo. Basti pensare a come gli abitanti ritengano dispregiativo lo stesso termine “slum”, preferendo usare “kijiji” (“villaggio” in swahili).
L’approccio narrativo è profondamente onesto: gli autori “continuano a farsi domande” piuttosto che esprimere giudizi e invitano il lettore a fare altrettanto, sollecitandolo con resoconti sempre più destabilizzanti. Al tempo stesso però, ribadiscono in diversi punti – sia al lettore che a loro stessi – come il loro sguardo non possa necessariamente essere oggettivo.
Sul piano della prosa, la narrazione è articolata per episodi e risulta volutamente frammentata, come se gli autori stessero concedendo un accesso privilegiato ai loro ricordi e alle loro emozioni, accentuando la sensazione di realismo e di empatia. L’attenzione è comunque tenuta sempre accesa, grazie a una equilibrata gestione dei toni che consente a Deninotti e Fontana di passare consapevolmente da momenti leggeri a episodi drammatici con disinvoltura e senza mai indugiare in espedienti ricattatori.
Sul piano visivo, lo stile di Ruvidotti rivela una grande solidità registica nella costruzione delle tavole. Il cartoonist riesce a far rivivere il mondo dello slum con pochi ed efficaci tratti e ricorre al colore in maniera molto funzionale alla narrazione, con quella ricca palette cromatica che rimarca il contesto africano, mentre i contorni di sagome e ambienti diventano talvolta rossi per enfatizzare i momenti più carichi di pathos.
All’ispirata generosità di soluzioni visive contribuiscono anche i dosatissimi documenti fotografici che corredano i passaggi più realistici del racconto e delle efficaci infografiche che integrano il reportage con gli strumenti del data journalism. Non manca anche una commovente tavola con i veri “ritratti” dei bambini dello slum al Frate Ettore Marangi, referente di Rainbow for Africa per i tre autori in visita.
Forse è vero che – come nella loro etica cristallina sostengono i protagonisti nel momento del commiato – “non basta raccontare per credersi assolti”, né tantomeno leggere e informarsi. Però, visti i tempi che corrono, oggi più che mai va salvaguardato e incoraggiato ogni minimo gesto che possa innescare una profonda riflessione collettiva e Lamiere è in questo senso un piccolo gioiello che scuote e provoca su più fronti: sul fatto che questo non è il migliore dei mondi possibili; sulle macerie umanitarie causate dall’imperialismo; su quanto siamo noi, cittadini occidentali, compromessi e coinvolti in prima persona; ma, soprattutto, sulla necessità di costruire una volta per tutte delle nuove condizioni per vivere su questo pianeta senza che mai più accada che un uomo abbia la meglio su un altro uomo in virtù del proprio status sociale ed economico. Molti la chiamerebbero utopia, ma forse è più utile cominciare a chiamarlo buonsenso.