Articolo di Libera di abortire
Menzioniamo così tanto il dato per cui l’obiezione di coscienza sull’aborto in Italia si è ormai assestata al 70% che ne siamo irrimediabilmente assuefattə. Ricordare che 7 ginecologi e ginecologhe su 10 sono obiettori e obiettrici di coscienza sembra non bastare più per smuovere le coscienze; ma le storie di chi è statə privatə della propria autodeterminazione, della propria narrazione dell’aborto, del proprio diritto di scegliere rimangono lì, come un monito a ricordarci che sarà pure un numero, quel 70, ma ha un impatto sulle vite di chi ci circonda.
Necessario è dunque risvegliare dal torpore e dall’insensibilità l’opinione pubblica. Raccontare che dopo quarant’anni dall’approvazione della legge 194 in Italia, le persone che scelgono di abortire in alcuni nostri ospedali pubblici vengono lasciate sole a vomitarsi addosso, che non viene somministrata l’anestesia durante l’aborto, che vengono lasciate a contorcersi dal dolore sotto l’indifferenza degli unici medici non obiettori perché troppo occupati a coprire anche le sale parto degli ospedali, che viene chiesto di pulire il proprio sangue dal pavimento perché tutto intorno a loro obietta e le stigmatizza per aver osato scegliere per le proprie vite, che viene sottratto anche il diritto di scegliere la destinazione del feto con accordi riservati fra strutture ospedaliere e associazioni no-choice che si appropriano dei prodotti abortivi delle donne e li seppelliscono con rito cattolico nei cosiddetti “cimiteri degli angeli”.
Tutto ciò accade perché le norme che regolano l’interruzione di gravidanza nel nostro Paese sono state un compromesso pieno di condizioni e possibilità di ostruzione. Ma il nostro è un fatto tutt’altro che isolato. Possono contarsi infatti sulle dita d’una mano i Paesi nel mondo le cui leggi sull’aborto non nascondono clausole che hanno il solo scopo di limitare il libero accesso delle donne e delle persone con un utero ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza e ai metodi contraccettivi. Esiste una stretta correlazione tra la forma di Stato di ciascun Paese e la sua concezione dei diritti riproduttivi: la nozione di forma di Stato, infatti, attiene principalmente al rapporto tra autorità e libertà, e i diritti riproduttivi sono da sempre tra i più importanti sintomi di autodeterminazione individuale.
In Italia il punto di partenza da cui nasce la legge 194/1978 è – come sottolinea la comparativista Susanna Mancini nel suo “Un affare di donne” – la situazione giuridica del concepito: qui, ogni giorno da 43 anni, il principio cardine che vale e che ha condizionato le nostre vite e la nostra libertà di scelta è il divieto dell’aborto, e le situazioni in cui è permesso sono costruite normativamente come delle eccezioni. Non è un caso che la legge parli di tutela della maternità e della vita umana dal suo inizio e non di “libertà con il corpo”, cittadinanza femminile responsabile e autodeterminazione; come non è parimenti un caso che venga richiesto per legge ai consultori e alle strutture socio-sanitarie coinvolte di aiutare la persona incinta a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione volontaria di gravidanza, imponendo al momento della richiesta dell’intervento sette giorni obbligatori per “soprassedere” alla decisione.
Alla legge 194 del 1978 Adele Faccio, femminista e parlamentare del Partito Radicale, votò contro, pur di non accettare un compromesso reazionario e controriformista, definito “il punto più basso del compromesso storico fra Partito Comunista e Democrazia Cristiana”. Perché una legge del genere sull’aborto rappresentava – come scrive nel suo libro “Una strega da bruciare” – l’ultimo tentativo di un potere conservatore ormai battuto nell’opinione pubblica. Se il passaggio dal divieto totale alla concessione ben limitata è stato comunque una conquista contro l’aborto clandestino, di massa e di classe, nondimeno per tanti anni la 194 ha rappresentato una trincea dietro cui arroccarsi per poter parare i colpi assestati a ripetizione dai movimenti no-choice nazionali e internazionali. Oggi se si leggono gli articoli da cui è composta, ma soprattutto se la si vive nelle strutture sanitarie pubbliche italiane, la necessità del suo superamento è più che mai evidente.
“Libera di Abortire”, una campagna di pressione sulle Istituzioni e di informazione pubblica per garantire a tutte le donne e le persone con utero il libero accesso all’aborto, nasce dalla consapevolezza che per scontrarsi ad armi pari con l’internazionale integralista in grado di riunire l’estrema destra evangelica statunitense, i poteri reazionari della Russia di Putin e la Chiesa Cattolica, serve lanciare il cuore oltre l’ostacolo, oltre le divisioni che hanno caratterizzato il fronte femminista in questi anni e oltre la paura di scivolare indietro qualora ci si accingesse a toccare quel compromesso di 40 anni fa. Non siamo solə. Nel mondo, infatti, si è delineata nel corso degli ultimi tempi una “seconda guerra mondiale sull’aborto”, dopo le lotte degli anni Settanta per contrastare gli aborti clandestini. Siamo, quindi, di fronte ad un nuovo conflitto internazionale che ha come campo di battaglia il corpo delle donne e l’Italia ne è uno degli epicentri.
Dobbiamo essere prontə e unitə: ecco perché il primo passo della campagna “Libera di abortire” è stato la creazione di una rete di associazioni, movimenti e partiti (primi fra tutti Radicali italiani, UAAR, IVG Ho abortito e Sto Benissimo e tante federazioni dei Giovani Democratici) che in questi anni si sono battute per il diritto all’aborto in Italia. Mentre il fronte antiabortista si dota di nuovi strumenti finanziari, retorici e di pressione politica, è essenziale dunque continuare a unire e fare rete. Una rete di resistenza ma anche di conoscenza, denuncia, proposta. Alle donne e alle persone con utero che abortiscono in Italia viene negata informazione, cura, libero e pieno spazio di autodeterminazione e scelta, ma anche prevenzione. A causa del numero altissimo di obiettorə, delle violenze fisiche e psicologiche, dell’assenza di informazioni chiare e scientificamente corrette e delle amministrazioni anti-abortiste.
Da maggio 2021 la campagna “Libera di Abortire” cerca di partire dalla storia di Francesca Tolino – testimonial della campagna – e da quelle di tutte le donne che hanno abortito in Italia per dimostrare la concretezza dei dati e il disinteresse delle istituzioni per i diritti riproduttivi. Dai racconti, dallo stigma, dall’imbarazzante silenzio del Ministero della Salute sul tema delle interruzioni volontarie di gravidanza nascono i sette punti dell’appello che fino ad ora ha raccolto 35.000 firme in tutta Italia.
Sette proposte per:
- Limitare l’obiezione di coscienza, disincentivare economicamente le Regioni che non garantiscono un efficiente servizio di IVG
- Favorire il ricorso alla telemedicina per i colloqui video tra paziente e medicə e il rilascio telematico del certificato necessario per l’IVG
- Rendere obbligatori percorsi di formazione e aggiornamento del personale sanitario e progetti continuativi di informazione su sessualità e affettività nelle scuole
- Non ultimo, fornire informazioni complete sull’aborto. Ci siamo postə dall’inizio l’obiettivo di raggiungere 50.000 firme al nostro appello per dimostrare che esiste un’Italia diversa, dei diritti e dell’autodeterminazione
È impossibile accettare passivamente che un’istituzione come il Ministero della Salute ignori la necessità di fornire sul proprio portale informazioni chiare, scientifiche e laiche su come accedere ai servizi di interruzione volontaria di gravidanza nel nostro Paese, eppure, a parte uno scarno monito di come l’Italia tuteli sempre e comunque la maternità, poco si trova nella sezione del sito dedicata al tema. Abbiamo deciso di partire, quindi, da una massiccia campagna d’informazione tramite affissioni, cartellonistica e vele stradali, che ha avuto come soggetti principali proprio quelle storie di donne e persone con utero che testimoniano come in Italia si possa sì abortire, ma a che prezzo?
Per sopperire a tutte queste mancanze, abbiamo poi diffuso e realizzato un vademecum informativo, “Libera di sapere, libera di abortire”, autoprodotto insieme alle attiviste. Ci siamo assuntə la responsabilità di informare per formare e così abbiamo diffuso fuori da scuole e università di tutta Italia oltre 10mila copie di quel vademecum, non solo spiegando come accedere ai servizi abortivi, ma anche preparando le donne e le persone con utero a cosa non è (più e mai stato) lecito subiscano nel loro percorso verso una interruzione volontaria di gravidanza. Il vademecum è stato in questi mesi reso disponibile in diverse lingue, così da garantire pieno accesso all’informazione a tutte le persone che si trovano in Italia e hanno bisogno di abortire.
Far sì che le donne e le persone con utero non siano formate (oltre che informate) rispetto alla gestione dei propri diritti riproduttivi è il principale scopo dei movimenti no-choice in Italia, che si inseriscono nelle pieghe della legge 194 per minare, giorno dopo giorno, la cittadinanza femminile. Ecco perché contro le loro evidenti violazioni dei diritti delle donne abbiamo adottato anche lo strumento del contenzioso strategico, intraprendendo azioni legali specifiche per attivare un cambiamento normativo e promuovere consapevolezza e dibattito attorno al tema dell’aborto.
A settembre si è tenuta la prima udienza al Tribunale di Roma dell’azione popolare che abbiamo presentato nel marzo 2021 contro AMA, ASL Roma 1 e l’azienda Ospedaliera San Giovanni per contestare le prassi indebite che hanno portato alla creazione del cimitero dei feti al Cimitero Flaminio di Roma. Una pratica, non isolata al caso romano, che prevede la sistemazione di una croce cattolica sopra la tomba del feto con il nome e cognome della persona che ha abortito senza che questa, come nel caso di Francesca Tolino, ne sappia nulla. La nostra vittoria nel processo chiarirebbe una volta per tutte che è solo la persona che ricorre all’aborto a dover essere informata per scegliere. E che solo lei può prendere una decisione.
Molto può fare ciascunə di noi, già da subito. In questi giorni abbiamo attivato in ogni regione i primi gruppi telegram dellə attivistə. Sono arrivate centinaia di adesioni. È un primo passo di un necessario coordinamento, aperto a tuttə (associazioni, movimenti, comitati, partiti, singolə cittadinə, perché ben sappiamo che, per una riforma strutturale, la via maestra è quella legislativa. Tramite il Parlamento o tramite azione popolare o referendaria, se sarà necessario. Perché è tempo di uscire dalla trincea e passare all’attacco.
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