Articolo di Stefania Covella
Dopo il successo di The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella) è il turno di un altro romanzo di Margaret Atwood: Alias Grace (L’altra Grace). Coproduzione canadese-statunitense (Cbc e Netflix) online dal 3 novembre, Alias Grace è una miniserie da sei episodi sceneggiata da Sarah Polley e diretta da Mary Harron.
«Male fantasies, male fantasies, is everything run by male fantasies? Up on a pedestal or down on your knees, it’s all a male fantasy»
Scriveva Margaret Atwood in The Robber Bride (1993) e forse già pensava ad Alias Grace (1996). Una storia incentrata sulle donne che sono la proiezione di fantasie maschili.
Alias è l’avverbio latino che si usa interporre tra il nome reale di una persona e lo pseudonimo o il soprannome o il titolo con cui è generalmente nota. A Grace non è mai stato permesso di essere reale.
Lei è due, nessuna e centomila, oggetto delle morbose fantasie altrui. Interpretata come un quadro o una poesia oscura quando ormai la verità si è persa e nessuno può rivendicarne il senso.
Alias Grace è liberamente ispirata a fatti realmente accaduti: Grace Marks (Sarah Gadon) è una celebre (presunta) assassina dell’Ottocento, immigrata dall’Irlanda in Canada e imprigionata nel 1843 – a soli sedici anni – per una condanna di duplice omicidio ai danni di Thomas Kinnear (Paul Gross) e Nancy Montgomery (Anna Paquin). Per il crimine commesso viene processato e impiccato lo stalliere James McDermott (Kerr Logan) che confessa e accusa Grace di essere stata l’istigatrice del delitto, mentre lei sostiene di non ricordare nulla dell’accaduto.
Dopo anni trascorsi in manicomio tra torture e ingiustizie di ogni tipo, viene rinchiusa nel carcere di Kingstone. Attraverso una serie di dialoghi e un rapporto epistolare con il giovane medico Simon Jordan (Edward Holcroft), conosciamo la storia di Grace: il passato, i traumi, i lutti e i suoi pensieri, anche quelli che cela di proposito al dottore.
Simon Jordan cura la mente e non il corpo, in un’epoca pre-freudiana con scarsa conoscenza delle malattie mentali. Inesperto e terribilmente affascinato da Grace, finisce per perdersi come in un labirinto. Arranca, il dottor Jordan, mentre ha tra le mani il potere di salvarla o condannarla, ne subisce il fascino puro e torbido insieme.
Grace non ha niente da perdere e cerca solo di sopravvivere, di non concedere agli altri di esercitare più potere di quello che già possiedono.
Non è padrona di sé stessa anche se resta sempre fedele ai propri principi. In quanto figlia, donna, domestica o moglie, Grace è sempre di qualcuno. Una cosa di cui nessuno si preoccupa veramente. La desiderano, la vogliono, la usano e la studiano come si farebbe con un animale esotico o con un’attrazione del circo degli orrori.
Grace non appartiene a sé, come nessuna donna della storia. Ha le mani degli altri addosso e dentro, nelle profondità della sua mente. Le stesse mani di chi dice di volerla capire, guarire e amare e invece la fa a pezzi.
Non la lasciano mai in pace, vogliono guardarla, fare teorie e decidere cos’è, perché ha commesso quell’omicidio o perché non può averlo fatto. Ne parlano i giornali e l’opinione pubblica si scatena, i ricchi la vogliono a servire il tè e a spolverare le loro case. Desiderano vedere da vicino la vittima o il mostro, il demonio con la faccia d’angelo.
A nessuno interessa davvero la sua storia di vendetta o sdoppiamento, ma quel fragile equilibrio tra il bene e il male. L’attimo brutale che cambia tutto.
Ci serve avere un giudizio netto per dormire la notte. Sapere cosa è giusto e cosa sbagliato, perché le sfumature ci confondo come gli incubi in cui si perde l’orientamento.
Grace impara la lezione da tutte le donne sul suo cammino, quella di Mary Whitney e Nancy Montgomery. Una lezione che le permetterà di sopravvivere fidandosi solo di sé stessa.
Impossibile da non menzionare, seppur brevemente, la parte sull’amicizia tra Grace e Mary Whitney. Due persone diverse che si avvicinano e stringono un legame autentico e spontaneo che non può più essere spezzato, finendo per farsi promessa e monito. Un gioco da ragazze: una buccia di mela a formare una spirale e la lettera J, la finestra che Grace scorda di aprire, l’anima intrappolata che sussurra e il velo nero che svela anziché nascondere.
Una sottana rosso sangue, rossi i capelli e rosso il filo con cui Grace cuce le trapunte che raccontano la storia delle donne.
I temi delle trapunte (L’albero della Vita, il Cestino di Fiori, il Sentiero Intrecciato, il Volo d’Anatre e la Capanna di Tronchi) rappresentano il contenuto narrativo.
Forse è proprio in quella trapunta che cuce tutto il tempo – l’unica cosa che crea su misura per sé stessa – che è ricamato il segreto di Grace. La sua versione della storia.
«Una storia, quando ci sei nel mezzo non è una storia, è solo confusione: un fragore indistinto, un andare alla cieca, tra vetri rotti e schegge di legno; è come una casa che vortica in una tromba d’aria, una nave che si schianta contro gli iceberg o precipita giù per le rapide, e nessuno a bordo può fermarla. È soltanto dopo che diventa una storia, prende una forma. È quando la racconti, a te stessa o a qualcun altro.»
La miniserie truecrime è brevissima e assolutamente godibile, soprattutto se riuscite a guardarla prima di The Handmaid’s Tale (ve ne ho parlato qui) che resta una pietra miliare della serialità, difficilmente equiparabile.
Alias Grace è costellata da quelli che possiamo considerare i temi atwoodiani: l’amicizia tra donne, la questione femminile, la discriminazione sociale, gli studi psichiatrici, il potere del patriarcato, l’aborto (quello clandestino) e il concetto di identità. La narrazione alterna passato e presente, creando un ottimo ritmo e alleviando il fastidio che normalmente provocherebbe un numero così alto di flashback.
L’equilibrio di scrittura, regia e montaggio, rendono Alias Grace un ottimo prodotto seriale e una nuova stella nel firmamento (già molto luminoso) di Netflix.