Articolo di Rossella Ciciarelli
L’arte e il concetto di identità sono legati tra loro più di quanto si possa immaginare.
In che modo? Pensiamoci un attimo: dietro ad ogni opera si nasconde l’identità di colui che l’ha creata, quella di chi la guarda, e anche l’identità dell’opera stessa.
Nel Novecento, epoca di cambiamenti storici e culturali segnata da un sentimento generale di incertezza ed inquietudine, tutte queste identità iniziano ad interrogarsi più liberamente su loro stesse e sui propri confini. E li oltrepassano.
Parallelamente, l’arte registra questa evoluzione e si scopre a sua volta libera.
Libera anche di giocare con il maschile e il femminile, con le differenze e gli stereotipi, di sanare i conflitti e rendere mobili i confini di questi due aspetti avvertiti come opposti perché tradizionalmente legati alla suddivisione dei ruoli all’interno della società.
Uno dei protagonisti indiscussi di questa ricerca è Marcel Duchamp, con le sue trasformazioni artistiche e identitarie messe in atto attorno agli anni Venti del secolo scorso.
È facile che si conosca Duchamp, anche solo per sentito dire, e che lo si accosti mentalmente al celebre orinatoio (La fontana, 1917) o alla “Gioconda coi baffi” (L.H.O.O.Q., 1919); più difficile è che si conosca la lettura di queste opere che tenterò di proporvi qui di seguito.
Questo perché l’ambivalenza di genere è un aspetto tanto importante quanto rimosso della sua arte, che rende fondamentale il tema del corpo come espressione di un’identità libera basata sull’inadeguatezza di rigide distinzioni.
Quella di Duchamp potrebbe essere chiamata dunque, con un gioco di parole come quelli che a lui tanto piacevano, arte della tra(n)sformazione.
Osserviamo per esempio La Fontana.
Beh è un orinatoio rovesciato, direte voi.
Esattamente, ed è importante tenerlo a mente ai fini interpretativi dell’opera.
Più in particolare, è un orinatoio rovesciato che porta come firma “R.Mutt”, che, scritto così, potrebbe non dirci niente.
Anteponendo però il cognome all’iniziale del nome R. abbiamo la parola “Mutter”, ovvero “madre” in tedesco. La forma dell’orinatoio, con questo rovesciamento formale, ricorda, infatti, la forma di un bacino femminile o di un vaso alchemico. Ad essere capovolta, dunque, è anche la sua funzione di genere e un oggetto tipicamente associato al maschile vive così la sua tra(n)sformazione.
Stessa cosa accade alla Gioconda in L.H.O.O.Q..
Anche se può sembrare una provocazione – e in parte lo è – la trasformazione operata da Duchamp, che aggiunge dei baffi ad una riproduzione fotografica dell’opera più celebre di Leonardo, è ancora una volta un modo per confondere quei confini che pretendono di circoscrivere l’identità e per giocare con i generi, riproponendo il tema del modello alchemico androgino.
C’è inoltre da tenere a mente che la Gioconda è un simbolo artistico forte, non solo del rinascimento italiano, ma anche della donna come oggetto di rappresentazione privilegiato in pittura: appropriandosene e operando questa “transformazione”, Duchamp mette in discussione la relazione fra l’artista come individuo unico e maschile e l’opera femminilizzata.
Nella storia dell’arte, infatti, la “virilità” dell’artista è tendenzialmente data per scontata, mentre la donna ha sempre avuto il ruolo di codificare l’Altro del processo artistico: l’opera d’arte, l’oggetto dello sguardo, l’immagine.
Duchamp apre invece la possibilità di pensare l’artista come figura instabile dal punto di vista dell’identità di genere, e lo fa dando vita al suo alter ego, Rrose Sélavy.
Ancora, se è facile che si conosca Duchamp, purtroppo lo è meno che si sia mai sentito parlare di Rrose.
Facciamo dunque la sua conoscenza.
Rrose Sélavy “nasce” nel 1920, quando il suo nome compare per la prima volta come firma di un’opera, Fresh Widow, un ready-made formato da una finestra in stile francese con pannelli di cuoio neri che dovevano espressamente esser lucidati ogni giorno; è per questo quotidiano strofinio che probabilmente la French Window (= finestra francese) diviene, sempre giocando con le parole, una Fresh Widow, ovvero una “vedova impudica”.
A partire da questa prima apparizione, le opere di Rrose si moltiplicano e questa figura appena nata comincia subito a crescere, a possedere una propria biografia.
Ma non solo, esiste anche documentazione fotografica di Rrose: a fotografarla è Man Ray.
Nel 1921 la immortala per la rivista New York Dada con un cappellino con fascia a motivi geometrici, ingioiellata e con un sorriso inafferrabile che potrebbe essere paragonato proprio a quello della Gioconda.
La fotografia permette a Duchamp-Rrose di esporre la figura dell’artista allo sguardo e spostarlo al centro dell’immagine, il posto generalmente occupato dalla donna.
Dotata di un’immagine e di una biografia crescente, Rrose non si ferma, e si arma di un biglietto da visita; per Duchamp è un vero e proprio altro io, da aggiungere a quello precedente.
Rrose scrive dei bon-mots, dei giochi di parole volutamente senza senso ma che a volte suonano espliciti così come esplicite sono le use opere.
Del resto, per inquadrare questo lato della sua personalità basta esaminarne il nome, che suona come Eros c’est la vie (“Eros: così è la vita”). E ancora, il suono rimanda ad Arroser la vie, cioè “Berci sopra, fare un brindisi alla vita”.
Al suo alter ego femminile, Duchamp conferisce quindi sensualità – e per lui l’eros è una cosa seria, che nasce dalla continua novità, dal pensiero in continua formazione – ed umorismo, per cui confessa di nutrire un grande rispetto, considerandolo una sorta di salvaguardia che consente di passare attraverso tutti gli specchi.
Duchamp e Rrose, sono dunque fra gli artefici e al contempo fra le prove della scoperta di libertà dell’arte del Novecento: libertà di ridisegnare e ridisegnarci oltre le dicotomie, oltre i ruoli.
Libertà espressiva in cui il maschile e femminile non emergono come polarità opposta, ma come archetipi inscindibili di cui siamo fatti, come elementi complementari. Come parti di un tutto.