Fino al 20 maggio, al PAC di Milano, si può visitare Ya basta hijos de puta di Teresa Margolles, artista messicana nata a Culiacán, Sinaloa, nel 1963, che vive e lavora tra Città del Messico e Madrid.
È una mostra diretta, cruda, senza mezzi termini, colma di realismo: la violenza è un filo conduttore per quello che non è solo un viaggio attraverso la brutalità e le sue conseguenze, ma un grido collettivo per dire basta al perpetuarsi dei crimini contro ogni genere.
Teresa, che nel 2009 ha rappresentato il Messico alla Biennale di Venezia, si è formata in medicina legale ed ha lavorato per anni con il collettivo SEMEFO (Servicio Médico Forense), che denunciava la violenza sistematica nella città contemporanea. Ha vissuto a Ciudad Juárez, cittadina nota per la guerra tra narcos e i femminicidi. Sulla morte, gli effetti del narcotraffico sulla società, l’orrore delle angherie a cui sono sottoposte le donne, i/le transessuali e le minoranze, incentra la sua opera.
Diego Sileo, cultore e appassionato del Messico, è il curatore di questa mostra, nonché di quella in corso al MUDEC di Milano dedicata a Frida Kahlo.
Con lui, si è parlato di Teresa, della sua arte, della drammatica universalità della violenza ed ovviamente del Messico e delle sue artiste.
Diego, partiamo dal titolo: Ya basta hijos de puta – in italiano “Basta figli di puttana” – da cosa è preso?
È il titolo di una sua opera realizzata alcuni anni fa: Teresa la incideva sui muri di musei, spazi espositivi in cui veniva invitata a fare mostre. Era lei stessa che con un martello pneumatico scriveva sul muro questa frase che in realtà si rifà a un narco messaggio: una decina di anni fa ha scoperto dai giornali questa nuova pratica crudele e tremenda che è in uso tra le bande dei narcotrafficanti e che prevede l’incisione di questa frase con un coltello o a fuoco, sulla pelle delle ragazze prima o dopo averle ammazzate. È una minaccia verso gli uomini, amanti e mariti di queste donne: è un’intimidazione che i vari personaggi della droga rivolgono alle bande rivali, ai competitor sul mercato, per spaventarli e farli smettere di “guadagnarsi il proprio posto”: se continuano, gli fan fuori tutte le donne, le compagne, le mogli, etc.
Teresa, quando venne a conoscenza di una pratica barbara, ormai in uso da una decina di anni, vedendone le immagini sui giornali, decise di realizzarne un’opera: ecco come nasce l’incisione della frase sui luoghi espositivi in cui è invitata.
Per la mostra al PAC le ho proposto di stravolgere il significato, non la traduzione letterale, ma il messaggio della frase.
Quando ho deciso di realizzare la mostra ho voluto che la violenza fosse il filo conduttore e il tema principale, una violenza che potesse accumunare l’area geografica dalla quale Teresa proviene, il Messico, e che fosse anche una violenza a noi tristemente nota, che permette il confronto con quanto che si verifica da noi, a Milano: ecco il perché dell’opera al piano di sopra realizzata con i lenzuoli usati per avvolgere i cadaveri di donne morte nella nostra città.
Ho pensato di chiedere a Teresa perché non provare a usare la frase Ya basta hijos de puta per dare a un titolo esplicito e forte la forma di un valore, di un messaggio politico, di un incitamento a dire basta alla violenza.
Abbiamo così preso un messaggio forte e lo abbiamo stravolto, mutandolo, al di là della parolaccia presente, in un’esortazione a dire basta a tutte le forme di maltrattamenti che è importantissimo dire che non sono una prerogativa del Messico ma che, ahi-noi, caratterizzano anche le nostre società e le nostre realtà.
La mostra è molto forte, me ne rendo conto, è un viaggio nella violenza, a volte ai limiti dell’insopportabile, ma io ero interessato all’idea che il pubblico, uscendo dal PAC, potesse dire “basta, ora basta davvero con queste forme di brutalità” contro le transessuali messicane, quelle italiane, e più in generale contro ogni genere: siamo uno spazio pubblico, ed è giusto dare il nostro contributo. Del resto, per dire basta dobbiamo prima di tutto imporci noi come singoli ed iniziare a ribellarci.
Come è stato costruito il percorso visivo della mostra? Come sono stati messi insieme i diversi elementi presenti?
La nostra idea era quella di non fare una semplice mostra retrospettiva di Teresa, ma di presentare una selezione dei suoi lavori: è sì nota a livello internazionale, ma in Italia, considerati i temi che tratta, abbiamo pensato ci sia ancora bisogno di un approccio diverso alle sue opere.
Abbiamo quindi pensato di concentrarci su alcune sue opere legate tra di loro dalla violenza sul corpo, di costruire un percorso su come si ripercuote su di esso, quindi sulla sua sparizione, un viaggio incentrato su come la brutalità arrivi a far sparire la presenza umana e porti alla scomparsa della nostra esistenza.
Si parte così dalla prima sala, in cui ci sono le transessuali rappresentate. Sono le uniche presenze vive in tutta la mostra, in cui il corpo è vivo, nonostante le condizioni limite di vivibilità, è vivo, poi dalla seconda sala si parla solo di scomparsa del corpo per mano violenta e via via questo corpo va scomparendo con le ragazze desaparecidas della seconda sala, con i gioielli che parlano di assenza, con le mattonelle che parlano di una migrazione finita male, con Carla che, tra le transessuali della prima sala, è quella morta ammazzata e quindi si è separata da questo gruppo, con il filo appeso, quindi con i corpi morti, con il fumo al piano di sopra che chiude l’esibizione.
In ogni sala c’è un’installazione di Teresa, lavori che ha realizzato in ormai vent’anni di attività: il tema non è nuovo, bensì è un leitmotiv in tutta la sua opera ed è stato difficile selezionare le sedici installazioni, la scelta di concentrarci sulla sfumatura della scomparsa del corpo ci ha reso più semplice l’operazione.
Qual è l’opera che racchiude secondo te l’essenza di Ya basta hijos de puta?
Di sicuro Vaporización, che non a caso chiude la mostra al primo piano: racconta come queste tematiche di Teresa siano adattabilissime in maniera drammatica, raccapricciante, macabra, a ogni contesto. Spesso quando una persona vede le sue opere, le sue mostre, rimane spaventata, attonita, ma poi uscendo si convince che, va be’, tanto succede dall’altra parte del mondo, e che si sa, il Messico è uno dei paesi più pericolosi al mondo.
In realtà abbiamo dimostrato che si tratta di un fenomeno che riguarda anche noi: Vaporización, è stata realizzata da Teresa per la prima volta nel 2003 in Messico con il vapore ottenuto dall’acqua con la quale erano stati lavati i cadaveri delle donne di Juárez, quindi nascendo in un contesto messicano, ma noi, a distanza di anni, abbiamo potuto adattarla ad uno italiano, milanese, e peraltro senza alcuna difficoltà.
I lenzuoli che abbiamo utilizzato sono quelli che hanno avvolto i corpi di donne morte a Milano, e ne sono stati utilizzati pochi considerata la preparazione, che è complessa.
Un’altra installazione molto rappresentativa è quella di Carla, proprio per la sua trasversalità territoriale dimostrata peraltro dai dati: in quest’anno di preparazione della mostra abbiamo monitorato la violenza a Milano nei confronti di donne cis e trans, i numeri sono raccapriccianti.
Teresa desiderava che a leggere la testimonianza rilasciata da Yvonne quando ha trovato il cadavere di Carla, fosse una transessuale italiana possibilmente di Milano e con un passato difficile quanto le ragazze di città Juárez: così ho trovato Melissa, transessuale trentenne di Milano che ha subito tre stupri di tre suoi clienti che è impossibilità a denunciare alle autorità. Del resto, se li denunciasse, sulla carta d’identità ha ancora un nome maschile, in più si prostituisce, quindi le verrebbe detto che ha incentivato i clienti a farle violenza, e via dicendo.
Proprio perché danno la prova concreta di come i temi di Teresa siano davvero purtroppo universali, di come la violenza sia intrisa e intrinseca nella nostra società, Vaporización e l’installazione di Carla con la collaborazione di Melissa sono secondo me certamente le più rappresentative di questa mostra.
Ya basta hijos de puta abbiamo detto essere una mostra fisica, d’impatto, brutale, come la realtà che racconta: ha subito contestazioni? Teresa è mai stata ostacolata nella sua opera di artista?
Su questa mostra no, non ci sono state contestazioni.
Era da tempo che volevo lavorare con Teresa, da moltissimi anni.
Questa mostra viene al termine di una trilogia iniziata con Regina José Galindo, Santiago Sierra e poi con lei. Sono tre artisti che apparentemente sembrano molto simili ma hanno un approccio verso la violenza molto diverso e fanno arte in modo differente. Con Regina abbiamo avuto tantissime contestazioni e segnalazioni negative, anche del nostro pubblico, che non capiva come l’arte potesse mettere in scena tutta questa brutalità.
Sarà poi che gli anni sono passati, che siamo stati abituati purtroppo a vedere queste forme di violenza sempre più presenti nella nostra società. Sarà anche un discorso che qui al PAC abbiamo intrapreso e portato avanti, e che l’episodio di Regina non è stato un episodio sporadico, ma l’inizio di un percorso che stiamo portando avanti, di un tentativo di raccontare un certo tipo di arte che prova a farci conoscere quelle realtà che di fatto non vogliamo conoscere, ma che esistono.
Siamo così arrivati, quattro anni dopo, con la mostra di Teresa, che è stata accolta dalla stampa sia di destra che di sinistra senza nessuna critica. In linea generale la stampa non ha criticato la nostra scelta né l’opera di Teresa. È stato sorprendente! Temevo un po’ il titolo, un po’ i temi… l’anno scorso con Santiago qualcuno aveva scritto che l’artista sfruttava le persone.
Con lei (Teresa, n.d.r.) ad oggi invece non ho letto nessuna critica verso di lei né verso il modo in cui racconti la violenza con la sua arte. Ci sono state delle persone sui nostri canali social che ci hanno segnalato che il titolo, Ya basta hijos de puta, potrebbe sembrare un po’ misogino, un ulteriore insulto alla donna. Ma abbiamo spiegato la scelta del titolo, ed una volta che spieghi come un messaggio con un senso misogino sia stato trasformato in un’incitazione alla non violenza, è a tutti tutto più chiaro.
È poi interessante, vedendo i numeri, che la mostra stia crescendo giorno dopo giorno, significa che c’è un passaparola, e che non è considerata una mostra al limite del macabro, voyeuristica: è un’esibizione che ha un certo gusto estetico e non dà immagini di violenza gratuita mentre racconta la brutalità che ha ad oggetto, del resto, l’arte di Teresa racconta delle cose raccapriccianti ma sempre presentandole in modo minimal concettuale.
Pensa ai fogli sporchi di sangue, se ti racconto che sono fogli imbevuti in bacinelle di sangue l’idea ti può urtare, ma poi quando li vedi esposti, è sorprendente la loro presentazione fra l’arte minimal e concettuale.
Sei un cultore del Messico, lo hai studiato, ci hai vissuto, ci lavori: se dovessi inquadrare il suo problema principale oggi, quale individueresti?
Sono tanti anni che vado in Messico, più di quindici. Ci vado due o tre volte l’anno. Ci ho anche vissuto diversi mesi per i miei studi, e potrei dirti quello che tutti dicono: la corruzione ed il narcotraffico.
Sono però temi molto estesi e difficili e che in realtà non sono poi così visibili se uno va lì e vive per qualche mese o ci torna l’anno dopo. Per la mia esperienza, questi che tutti, compresa la stampa, dicono essere i problemi principali io non posso confermarteli, non si vedono in modo così plateale, a me non è successo nulla di drammatico né ho visto le sparatorie che Teresa denuncia: ci devi vivere per lungo tempo per entrare nelle viscere di un Paese come il Messico.
Secondo me, la piaga principale è la povertà. È un paese – soprattutto le grandi città come Città del Messico – sovraffollato, e c’è davvero tanta povertà.
E spesso dove c’è tanta povertà c’è anche tanta delinquenza: in Messico c’è un divario impressionante tra chi è povero e chi è benestante.
È un paese enorme in cui molti hanno abbandonato le zone periferiche per indirizzarsi verso le città che hanno, come Città del Messico, un minimo di sostentamento economico, ma proprio nella capitale ora sono arrivati a trenta milioni di abitanti, che in una sola città sono tanti. È la metà della popolazione italiana. Come può una città, che non è estesa a livello di territorio come può essere una Los Angeles, per esempio, e che è concentrata su un’altura di mille e passa metri di altezza, sostenere questa situazione?
Condizioni del genere ti portano a vivere in modo impressionante, ci sono persone che fanno i turni per vivere in casa, poi li trovi in mezzo alla strada tutto il giorno. In giro c’è tanta disperazione, e quella sì che la cogli anche se sei un turista che va lì uno o due mesi, a differenza di fenomeni più complessi come la corruzione e il narcotraffico.
In base alla mia esperienza, povertà e disperazione – che è davvero inimmaginabile – sono due grossi problemi per il Messico, ovviamente non dico siano quelli più gravi perché poi effettivamente c’è ben peggio e Teresa ce lo racconta.
In questo periodo a Milano, ci sono due mostre che stai curando tu, questa di Teresa e quella di Frida al Mudec: sono così differenti tra loro ma trattano temi, seppur diversi, riconducibili a uno stesso territorio. Cosa ne esce confrontando le due esibizioni?
Sono due immagini molto, molto diverse del Messico, è stata un gran fatica aprirle quasi in contemporanea, ma l’idea è interessantissima perché sottolinea come il Messico abbia avuto ed abbia una creatività oltre quello che si può immaginare, che è ovviamente il motivo della mia ossessione-passione per la sua arte e del mio dottorato in Arte latino americana: è un paese talmente ricco sotto l’aspetto culturale, storico, politico, con un passato che, rispetto a molte altre civiltà precolombiane, forse è quello che più ha vissuto e che vive ancora oggi questa tradizione che porta ad una ricchezza in termini artistici talmente vivace, che è interessante vedere come, nel giro di pochi decenni, ci siano ancora artisti con questa vivacità, con la libertà, l’indipendenza, la voglia di raccontare nonostante tutto e tutti e di essere liberi e fuori da certe logiche di mercato. Libera così come lo è stata Frida e molti altri all’inizio del secolo insieme a lei. Lo è Teresa oggi sessant’anni dopo: sembra aver raccolto questo spirito indipendente dalla Kahlo, come tutte le artiste latino americane che hanno raccolto la sua eredità. Al di là dell’aspetto artistico, tutte hanno questo ideale di donna indipendente che fa quello che si sente di fare, slegata da obblighi e condizionamenti.
Chi l’avrebbe detto che un’artista come Teresa, che racconta di morti così truci potesse arrivare ad essere una delle artiste più presenti in musei e mostre in giro per il mondo? Significa che ha proprio una tenacia, una veridicità in quello che fa che è abbastanza rara, che non si trova in tutte le artiste, e che poco si trova a mio avviso nelle artiste italiane di oggi.
Da noi la Kahlo è ancora una sorta di moda, per tutte le artiste latino americane è un punto di riferimento fondamentale: non c’erano donne prima di lei ed è stata la prima che si è imposta in una cultura, in un tipo di arte, maschilista, machista.
Mi piace l’idea che Teresa, totalmente diversa da Frida nel suo modo di fare arte, concentrata sul raccontare il suo contesto e non la sua vita, visto che non fa racconti autobiografici a differenza della Kahlo, possa essere ravvicinata al suo approccio empatico: Teresa non ha avuto una vita così drammatica come Frida, ma racconta quelle tragiche degli altri, che lei ha conosciuto convivendo con loro, non leggendole sui giornali. Teresa è inserita nel territorio, e nonostante non abbia gli stessi dolori della Kahlo, racconta quelli altrui vivendoli quasi in prima persona.