Articolo di Beatrice Carvisiglia
Maria Regina di Scozia, uscito nelle sale italiane all’inizio del 2019, ha segnato l’importante esordio cinematografico della regista teatrale Josie Rourke. Il biopic ha una sceneggiatura di Beau Willimon, autore anche di House of Cards: un esperto dunque nell’illustrare le dinamiche del potere e le sue infinite vie di seduzione e perdizione. Il film si prende qualche licenza dalla storia ufficiale, un difetto perdonabile in virtù della sua forte personalità. Il colossale impalco narrativo è retto interamente dalle due primedonne: Saoirse Ronan e Margot Robbie, magnifiche nelle loro caricature di regine potenti ma sole.
I libri di storia ci dicono che Maria torna in Scozia presso suo fratello Giacomo nel 1561, spinta da una ferrea tenacia e dall’ambizione del trono inglese. Il paese è allora in preda a una forte crisi religiosa: Maria persiste nella sua fede cattolica, mentre l’istituto protestante assume sempre più rilevanza. Il film parte da questo preciso punto, dallo sbarco di una pallida e provata Maria-Saoirse su una fredda costa scozzese. Basta poco allo spettatore per capire di che pasta è fatta l’aspirante regina, dipinta come capricciosa e ostinata nelle sue convinzioni, ma anche come passionale e sanguigna nelle relazioni interpersonali. Uno spirito che si riflette in maniera speculare nei paesaggi frastagliati e selvaggi della verde Scozia, con una fotografia che predilige spiccatamente i toni ombrosi. La fulgida bellezza di Maria è infatti contornata di oscurità: la sala in cui tiene i discorsi agli uomini che la circondano è buia come una caverna, le vesti dei rigidi calvinisti sono nere, il cielo è perennemente grigio plumbeo.
Maria è persuasa della necessità della tolleranza religiosa e attira così su di sé la condanna dei protestanti più intransigenti, che la considerano una reggente frivola e incapace di reggere il potere. Questo giudizio netto e crudele inchioda Maria alla gogna pubblica. La sua unica colpa è solo quella di essere una donna, una creatura “incostante e volubile”, inadatta all’esercizio delle sue funzioni. L’opposizione rende Maria una regina a metà, in bilico tra i compromessi dovuti agli uomini della corte e la voglia di seguire le proprie inclinazioni, come nel caso del matrimonio fallace con lord Darnley. Josie Rourke rivela innegabilmente la sua formazione teatrale: la telecamera scivola tra le fredde sale scozzesi con una fissità tragica, quasi shakespeariana. Maria è bella, è giovane, è risoluta, ma è tremendamente sola. Questo senso di emarginazione è opprimente, getta lo spettatore nell’irrequietezza. Non mancano colpi di scena e macchinazioni segrete nei confronti di una regina desiderata e al contempo osteggiata da molti dei suoi più fidati consiglieri.
A quest’immagine di durezza granitica si oppone quella della nevrotica regina Elisabetta, terribilmente sfigurata dal vaiolo. In opposizione all’ambiente scozzese, la corte inglese è un giardino multicolore, sempre reso dorato dalla luce del sole. La telecamera scivola placida su roseti, vetri colorati, abiti sgargianti e chiacchiere tra dame. A dominare la scena è però il viso di Margot Robbie capace, dopo la straordinaria prova di Tonya, di dare vita a un altro personaggio femminile forte e contraddittorio. Una sovrana diversa da quella d’acciaio impersonata da Cate Blanchett nel 2011, Elisabetta è dilaniata da profonde insicurezze e dalla perenne competizione con la giovane e graziosa Maria. Nonostante il focus sulla storia scozzese, forse è proprio la regina inglese ad essere la protagonista assoluta del film. Elisabetta è un concentrato di ossessioni e di invidie di bellezza e fertilità; eppure Robbie è splendidamente umana nel suo trucco di gesso e labbra rosso sangue.
Uno scontro per la corona e per la fede, dunque, ma anche un confronto a cuore libero tra due donne regnanti in un mondo immerso nel patriarcato. Le due si rincorrono e si rispettano, mentre tutt’intorno gli uomini affogano il paese nel sangue della guerra civile. In tal senso, la frase chiave del film è senza dubbio quella pronunciata da Elisabetta a una sfinita Maria: “sono più uomo che donna ormai”. Parole di un’epoca in cui per regnare bisogna recidere da sé la propria identità, farsi maschi per sfuggire alle leggi del branco. Tra le musiche sontuose, i paesaggi mozzafiato e i cambi d’abito si profila allora la luminosa via d’uscita da un mondo crudele e ingiusto: la necessità e la speranza di costruire il futuro sotto il segno della sorellanza.