Articolo di Beatrice Carvisiglia
“Che cosa dirà la gente di me? Che sono una persona vera”.
Tonya di Craig Gillespie, nelle sale dal 29 Marzo, è una biografia del tutto sui generis, a tratti spiazzante. In primis perché si tratta di un biopic dedicato ad una pattinatrice: il pubblico può aspettarsi una storia di rivalsa, di orgoglio, di valori positivi che lo sport da sempre incarna. Invece Tonya schiaffeggia con la forza di una realtà cruda, con il viso deformato dalla rabbia di Margot Robbie, magistrale interprete e produttrice.
La storia si basa su “interviste assolutamente contraddittorie”, come si specifica a inizio film: infatti tutti i nostri protagonisti tessono la loro tela di inganni, verità a metà, negazioni di responsabilità. Nessuno vuole assumere su di sé parte di quel che è accaduto, ovvero la scioccante spedizione ai danni di Nancy Kerrigan, rivale storica di Tonya, alla quale viene spezzato un ginocchio all’alba delle Olimpiadi invernali del 1994.
Insieme al ginocchio della Kerrigan si spezza anche il cuore dello spettatore, ammutolito da una storia triste e feroce allo stesso tempo. Il racconto scivola sui ventitrè anni di vita di Tonya, seguendo i suoi primi allenamenti, fino ad arrivare al suo matrimonio, all’ascesa e alla rovinosa caduta.
Tonya è vera, dura: una bambina bellissima che sa pattinare con forza e agilità supersonica, ingabbiata da una mamma anafettiva e crudele, LaVona, interpretata da una Allison Janney fresca di Oscar. Tonya cresce a Portland tra gli schiaffi della madre, che la spinge a dare il massimo con lo strumento dell’umiliazione e del rifiuto. Tonya che si fa la pipì sotto sulla pista perché non può smettere di allenarsi, Tonya che viene calciata giù da una sedia, Tonya alla quale la madre lancia un coltello. Tonya che corre piangendo dietro la macchina del padre, un altro inevitabile abbandono nella sua vita lastricata di sacrifici e abusi.
A soli 15 anni Tonya conosce quello che sarà suo marito, Jeff Gillooly (Sebastian Stan).
“Sposi il primo che ti dice che sei carina” sputa la madre a una Tonya consapevole del suo rapporto malato con Jeff, il quale, in una sorta di torbido cerchio di coincidenze, la picchia selvaggiamente. La pattinatrice passa così dalla casa materna a quella del marito: non si spezza la continuità della violenza a cui è sottoposta.
La forza e l’esecuzione tecnica non basta in uno sport che da sempre è considerato elitario, che desidera donne esili ed aggraziate, cigni che scivolano su lastre ghiacciate. Tonya è di origini contadine: è rozza, sboccata, non possiede alcuna eleganza e soprattutto, non ha alcuna intenzione di piegarsi a tale immagine. Lei si cuce i body da sola, piegata sulla macchina da cucito, fuma prima delle gare, insulta i giudici se il punteggio le sembra sbagliato.
“Non sei l’immagine che vogliamo per questo sport” rivela il giudice a Tonya in un accorato confronto, confermando l’ipocrisia di un’America classista che deride il costume dimesso di Tonya e i suoi movimenti arrabbiati, per nulla conformi a quelli leggiadri delle altre pattinatrici.
Margot Robbie mette in scena il senso di rivalsa di Tonya con le espressioni del viso, deformato da una rabbia selvaggia: lei sarà la prima pattinatrice ad eseguire in gara il triplo axel, un salto che nessuna ha avuto il coraggio di provare in gara. È proprio questo salto, questa mezza rotazione in più rispetto al triplo, a garantire la celebrità di Tonya: il pubblico la ama per un “fugace minuto” come ricorda lei stessa amaramente.
Un minuto prima della rovina, prima dell’evento che “tutti state aspettando”: Nancy Kerrigan, membro della squadra olimpica statunitense, viene colpita con una spranga al ginocchio a seguito di una sessione di allenamento.
La storia ufficiale ha messo sul banco degli imputati Jeff Gillooly e Tonya Harding, la quale, al netto dell’accusa, sapeva dell’aggressione ma non ha fatto nulla per impedirla. Il biopic ne dà un’immagine diversa, più sfaccettata: al centro c’è Tonya forse ignara, Tonya che per dedicarsi al pattinaggio non è andata neanche a scuola, non ha preso il diploma; Tonya che alle Olimpiadi va e piange nervosamente davanti allo specchio, che si sente sempre sul gradino più basso della società, destinata a guardare le altre brillare sul podio.
Proprio su questo punto il film produce uno spartiacque, ci lascia nell’amaro dubbio di una Tonya vittima e carnefice, che incassa colpi ma sa anche ferire. Questo sentimento di amarezza è il lascito di un film scritto a perfezione, impreziosito da una fotografia minuziosa e da una colonna sonora potente, tra Dire Straits e ZZTop.
Tonya è un film che rende conto di una società spietata e ipocrita, scintillante di lustrini e vezzi a telecamere accese. Il pregio della regia di Craig Gillespie è quello di spostare i riflettori su un’altra parte della storia, più degradata e oscura: se non possiamo giustificare, possiamo allora almeno comprendere.