Articolo di Alice Picco
Quante volte, per il bisogno di autoaffermarsi, una donna si spinge a gesti estremi? Quante volte sembra essere la società stessa a spingere una donna alla follia? Quante volte una donna decide di uscire dal ruolo che le è stato imposto, anche senza arrivare ad azioni estreme come quelle che sto per descrivervi?
Sì, ho deciso di raccontarvi due storie. Anzi, due miti. Due miti che hanno come protagoniste due donne all’apparenza molto diverse tra loro, due miti greci che sembrano non avere nulla a che fare con l’attualità, ma che invece dimostrano quanto di moderno ci fosse già nelle rappresentazioni teatrali tragiche greche del V secolo a.C.
Voglio parlarvi di quelle che, a parer mio, sono le due donne della tragedia greca che più si avvicinano alla donna di oggi: Medea e Deianira.
“Tra tutte le creature dotate di anima e di intelligenza, noi donne siamo le più sventurate!”.
É con queste parole che Medea fa il suo ingresso sulla scena nell’omonima tragedia di Euripide.
Questa donna, dopo aver abbandonato il padre per seguire il marito Giasone, si trova a vivere a Corinto, insieme al consorte e ai due figli. Ma, ed è con questa scena che la tragedia euripidea si apre, è proprio a Corinto che scopre che Giasone la vuole abbandonare per sposare invece la figlia del re del luogo.
Ed ecco che avviene la trasformazione di Medea: da moglie devota e pronta a tutto pur di seguire l’uomo di cui è innamorata, a donna tradita e furibonda, una donna ormai fredda e calcolatrice che medita una vendetta atroce per punire l’uomo che l’ha tradita. Medea medita l’infanticidio.
Quindi nel mito che Euripide porta in scena si vede una donna inizialmente smarrita e disperata a causa del tradimento inaspettato, ma che subito, nel giro di pochi versi, recupera tutto il controllo di cui è capace, diventando una sorta di “macchina da guerra”, decisa a compiere il peggiore degli atti: punire Giasone uccidendo i suoi stessi figli.
Prima di compiere la sua vendetta Medea indugia, il suo cuore è indeciso, ma alla fine prevale quel senso di onore così caro alla mentalità greca, prevalgono la gelosia sconfinata e il bisogno di ricomporre l’equilibrio che Giasone ha rotto, venendo meno alla sacralità del vincolo matrimoniale. Quello che Medea porta all’eccesso, fino a giungere al limite del parossismo, è quel senso di giustizia che caratterizza da sempre il pensare e il vivere greco antico.
Medea incarna in sé tutto ciò che per un greco esemplare, per un greco “normale”, è da rigettare. É una donna straniera, barbara, contrapposta alla civiltà propriamente ateniese rappresentata da Giasone; è una maga, e per questo appartiene ad un gradino più basso della scala sociale rispetto al consorte; è quello che i greci chiamavano pharmakòs, una persona da cacciare dalla città.
Ed ecco che vediamo come la tragedia di Medea non sia solo la tragedia della donna tradita e abbandonata, ma anche e soprattutto la tragedia della donna che viene esclusa in quanto considerata “diversa”, e proprio per questo decide di compiere l’estremo atto dell’infanticidio come una sorta di autoaffermazione, di presa di posizione nei confronti dei dettami di una società da cui non vuole farsi condizionare.
Abbiamo poi Deianira, moglie di Eracle, portata sulla scena da Sofocle intorno al 407 a.C.
Nelle Trachinie il tragediografo greco rappresenta il dramma di una moglie, che, come Medea, vede il proprio matrimonio rovinato a causa di un’altra donna. Deianira, infatti, dopo quindici lunghi mesi di attesa, è pronta a riabbracciare Eracle che torna vittorioso. Certamente, lei così devota e fiduciosa, non si aspetta che il marito torni preceduto da uno stuolo di fanciulle prigioniere, tra le quali c’è anche la ragazza che lui ha deciso di sposare.
Mentre Medea, nel momento in cui si rende conto del tradimento del marito, medita subito la vendetta, Deianira al contrario si impietosisce, non prova rancore né nei confronti di Eracle né nei confronti della rivale, perché entrambi sono preda di Afrodite, grande dea contro la quale lei, mortale, non può nulla. Anzi, Deianira è fin troppo consapevole di quel destino di infelicità e solitudine che la accompagna da quando si è sposata.
“Poi la vergine diviene donna, si addossa la sua parte di affanni nelle notti, i soprassalti, gli incubi per il marito, i figli”.
Deianira rimpiange la propria condizione di vergine, mentre vede nel fatto di essere sposata solo tribolazioni e affanni. Tuttavia è innamorata di Eracle, il suo amore è totalizzante, tanto da perdonare al marito il tradimento. Anzi, è proprio il desiderio di avere Eracle solo per sé che la porterà alla vera tragedia.
Infatti, dopo aver accolto in casa la rivale, Deianira decide di inviare ad Eracle una veste intinta in quello che lei crede essere un filtro d’amore ma che in realtà è un potente veleno: Eracle, non appena indossa la tunica, diventa preda di atroci dolori che lo tormenteranno in un’agonia che durerà fino alla conclusione della rappresentazione tragica.
Anche Medea fa soffrire il marito Giasone, ma lo fa intenzionalmente, per punirlo, e non sente il minimo rimorso per questo; Deianira invece, quando si rende conto dell’enorme errore commesso e delle terribili conseguenze, decide di suicidarsi, perché “non è sopportabile vivere nella cattiva fama, per una donna che mette al primo posto l’esser nata non ignobile”. Come nella tragedia euripidea, anche Sofocle rappresenta una civiltà della vergogna, per cui è preferibile la morte al vivere macchiati da una tale colpa.
A caratterizzare Deianira è proprio il modo in cui si suicida: decide di darsi la morte con un pugnale. Questo tipo di suicidio era considerato nell’antichità come molto virile, e quindi tipico di un uomo caratterizzato da un alto grado di virtù eroica, non certo adatto ad una donna abituata a stare nella parte interna della casa, una donna che non combatte e che tutto sommato non va incontro a troppi pericoli; per le donne era considerato più appropriato il suicidio per impiccagione o comunque senza spargimento di sangue.
Così come Deianira assume un comportamento maschile dandosi la morte con un pugnale, Eracle, una volta giunto in scena, si comporta come mai ci si aspetterebbe da un uomo, soprattutto un uomo del suo calibro: piange e si lamenta, non tanto della morte in sé, quanto del fatto di essere stato – lui, il valoroso Eracle – ucciso da una donna, per di più non in battaglia e senza una vera arma. E ciò che lo rende ancora più furioso è proprio il fatto di comportarsi lui stesso come una donna.
Inoltre, a differenza di Giasone che cerca una qualche giustificazione per il proprio comportamento una volta subita la punizione di Medea, Eracle rimane insensibile nei confronti di Deianira, anzi la maledice e vorrebbe vendicarsi: in questo modo si conclude la tragedia.
Quanto di moderno sia presente nelle figure di queste due donne, Medea e Deianira, si vede da sé: due donne considerate “diverse” dal resto della società, due donne che per troppo amore, l’una intenzionalmente, l’altra involontariamente, puniscono i propri mariti. Due donne che invece di stare relegate all’interno dell’oìkos come la società si aspetta e impone, escono all’esterno e sovvertono quelli che sono i canoni della grecità tradizionale.
Due donne che, in modi diversi, cercano di innalzarsi al di sopra delle aspettative comuni.
E voi? Ditemi se anche a voi è successo di sentirvi relegate, di sentirvi diverse, e cosa avete fatto per cercare di uscire da questo stereotipo che vi è stato cucito addosso.