Perché Moonlight ha meritato l’Oscar


Articolo di Benedetta Geddo
“Running around, catching a lot of light. In moonlight, black boys look blue. You’re blue. That’s what I’m gonna call you: Blue.”
Consumando film con una discreta voracità, succede abbastanza spesso di trovarsi di fronte a un bel film, uno di quelli che ti tengono incollato allo schermo, con personaggi interessanti e una trama che cattura. Più raro, a mio parere, è capitare su un film che ti colpisce con la violenza di un fulmine e ti fa riassestare un po’ tutta la tua vita. Per i due minuti dei titoli di coda, o per una settimana, un mese, un anno – non importa – lasciare lo spettatore seduto a rimuginare su una visione del mondo nuova è un traguardo che pochi film riescono davvero a raggiungere e, nella mia modesta opinione, è già un segno intrinseco del loro valore.
Moonlight è stato questo tipo di film, per me. Sono andata a vederlo senza particolari aspettative, se non quella di godermi quasi due ore di buon cinema, per la mia maratona di film da Oscar, necessaria perché ogni anno devo arrivare informatissima al mio appuntamento notturno con la cerimonia, avendo visto tutte le pellicole in lizza per le categorie che mi interessano, così da poter sfornare critiche a ragion veduta. So perfettamente di non essere Gianni Canova, ma ci si accontenta: del resto io gli Oscar li guardo dal divano di casa con pigiama e popcorn, non in uno studio di Sky con un completo due pezzi fatto su misura. Quando sono uscita dal cinema, mi sono resa conto che mi sbagliavo di grosso.
Diretto da Barry Jenkins, Moonlight è basato sull’opera teatrale In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Avin McCraney. È anche, e ve lo dico con tutta la sincerità possibile, uno dei film più mozzafiato che vedrete quest’anno, se non nella vostra vita.
La storia, divisa in tre atti come l’originale teatrale, segue il protagonista Chiron da bambino in i. Little, interpretato da Alex Hibbert; da adolescente in ii. Chiron, interpretato da Ashton Sanders; da uomo in iii. Black, interpretato da Trevante Rhodes, in una Florida del sud così vibrante di colori che si può quasi sentirne l’umidità sulla pelle. La trama si regge sulle sue spalle, e lo segue mentre cerca la risposta a una domanda che di semplice ha solo l’aspetto: cosa significa diventare uomo? E ancora, cosa significa diventare un uomo di colore, nell’America moderna?
«Nah. At some point, you gotta decide for yourself what you’re going to be. Can’t let nobody make that decision for you.»
Ho detto uomo, e non adulto, e l’ho fatto con cognizione di causa, perché Moonlight è una storia sulla mascolinità come poche ce ne sono: permette ai suoi personaggi di provare uno spettro di emozioni ampio e variegato, permette loro di essere deboli (lo si vede bene fin dalla prima entrata in scena di Chiron, che scappa, bambino, da un gruppo di bulletti che lo chiamano spregiativamente Little) e di essere fragili. Jenkins e McCraney scardinano completamente tutto un sistema di stereotipi non solo sulla mascolinità, ma sulla mascolinità nera, che sono diventati quasi un punto fisso dell’immaginario americano: il gangster spacciatore, con la macchinona, che non deve chiedere mai e la cui storia è segnata solo dalle pietre miliari di prigione e iniziazione alla criminalità. Ritorna ad essere l’uomo che è sempre stato (ma che decine e decine di sguardi di registi bianchi non avrebbero mai potuto, o voluto, scoprire).
Lo si vede bene nella relazione tra Chiron e il suo padre putativo, Juan, interpretato da un immenso Mahershala Ali: non c’è la retorica del “sii forte, che i maschi non piangono mai”, solo lezioni di nuoto nell’oceano Atlantico. E quando Chiron, bambino silenzioso, ma inquisitivo e intelligente, allaccia tutti i fili che collegano l’attività di spacciatore di Juan con la dipendenza da crack della madre Paula (un’altrettanto splendida Naomie Harris), Juan prova vergogna, una vergogna bruciante che lo lascia a testa china sul tavolo dal quale Chiron si allontana in tutta fretta, nella scena finale del primo atto.
È solo a metà del secondo atto che mi sono resa conto che sullo schermo non erano ancora comparsi attori bianchi. Non ce ne sono in i. Little, in ii. Chiron, in iii. Black. Un ribaltamento completo di quella che di solito è la norma hollywoodiana, che però non pesa. Questa non è una storia di persone bianche, perché, sorpresa, le persone bianche non sono al centro di ogni narrazione (un concetto che soprattutto in America non ha ancora attecchito completamente, e che l’attuale contesto politico e sociale non favorisce di certo). Allo stesso tempo, nessuno è tagliato fuori dal capire il messaggio di Moonlight. Non voglio sminuirlo con un commento sullo stile del alla fine le storie di miseria e sofferenza si assomigliano tutte, perché non è vero. Questa storia non potrebbe essere la stessa, se i suoi protagonisti non fossero uomini di colore – ma Jenkins e McCraney evocano comunque nelle loro scene un costante richiamo all’umanità intrinseca in ciascuno di noi, una sorta di esprit che ci lega gli uni agli altri, che ci permette di provare empatia ma non pietà. È questo che chiede Moonlight: empatia, non pietà.
Ho parlato di sofferenza perché è innegabile che ce ne sia, e molta. Il rapporto tra Chiron e la madre Paula è difficile, spesso abusivo, marchiato a fuoco dalla dipendenza di lei. A scuola le cose non vanno meglio, e l’unica oasi di pace che Chiron trova, crescendo, è la casa di Juan e della sua fidanzata Teresa (Janelle Monáe), sempre pronta a offrire cibo, lenzuola e ascolto.
Eppure Moonlight non si perde nel pozzo dello squallore che caratterizza molti film contemporanei, quell’iperrealismo che serve a riportare la cruda verità del mondo: ogni inquadratura è piena di colori, sfumature a tratti delicate e a tratti neon, viola e blu lampanti e forti, un’incredibile prova di fotografia di James Laxton. Ogni scena trabocca di vita, di bellezza, e si concatena alla successiva in un viaggio che è visivo, oltre che narrativo; teatrale, oltre che cinematografico. Sono le sensazioni a farla da padrone in Moonlight, sensazioni che escono dallo schermo e avvolgono anche lo spettatore – sensazioni come quella delle onde dell’oceano di notte, della sabbia tra le dita.
«You’re not a faggot. You might be gay, but you don’t have to let nobody call you no faggot.»
Non ho scelto l’oceano e la sabbia a caso: sono elementi chiave di una delle scene portanti del film, quasi in chiusura dell’atto secondo. Ed è forse la prima menzionata da qualsiasi recensione, perché è quella principale nella crescita di Chiron come uomo gay. Oltre ad essere un film sulla fragilità umana, sulle emozioni maschili, sul rapporto padre e figlio, sui quartieri di colore dai quali è difficile scappare, Moonlight è anche un film che racconta cosa significhi diventare un uomo di colore e gay nell’America moderna.
Chiron sperimenta l’omofobia fin da piccolo, fin dalla scena in cui da bambino scappa dai bulli: c’è già qualcosa che lo rende diverso, qualcosa di cui Juan e Teresa si accorgono, ma di cui non parlano fino a quando non è Chiron stesso a chiedere, «What’s a faggot?». Lo spettatore è messo nella posizione di Juan e Teresa: se anche non avesse letto nessun tipo di recensione prima di entrare in sala, è il film stesso a dirlo in un magistrale esempio di show, don’t tell, ossia di come i sentimenti dei personaggi andrebbero mostrati e non raccontati. La cinepresa si sofferma sul viso di Chiron e su un dettaglio della spalla di un altro ragazzo; inquadra una rissa amichevole con un erotismo leggero, infantile, ma palese; porta in primo piano tutta una serie di codici di solito riservati al subtext, al sottotesto, che qui diventano text, testo, parte integrante dell’intreccio.
Il contrasto e la confusione che si generano tra il mondo attorno a lui e i suoi propri desideri accompagnano Chiron durante la crescita, e nel rapporto con Kevin (interpretato da Jaden Piner, Jharrel Jerome e André Holland), compagno di scuola e qualcosa di più, il primo ad amarlo e il primo a tradirlo.
Gli ingredienti per un perfetto film sulle difficoltà di accettare la propria sessualità ci sono tutti, ma Moonlight li prende e li ripropone in modo nuovo – e fidatevi, io quei film li ho visti tutti. La lotta personale di Chiron non è incentrata sul dolore, ma sulla bellezza: è una danza sottile, come il suo primo bacio con Kevin, o come quando si ritrovano anni e esperienze dopo, e si riscoprono ancora le stesse due persone che erano sedute su quella spiaggia. E l’amore è un’esperienza umana, la più umana di tutte: non è feticismo (che vi devo dire, a me La vie d’Adèle proprio non è ancora andato giù), e non è solo tragedia.
Moonlight è la risposta perfetta a tutte le persone che si lamentavano, dopo 12 Years A Slave e Selma, che le uniche storie di persone di colore che Hollywood pensasse a raccontare fossero quelle su schiavitù e diritti civili. Proprio per questo, Jenkins e McCraney hanno corso un rischio (così come hanno fatto Theodore Melfi, regista di Hidden Figures, e Denzel Washington con Fences). Un rischio perché alla fine sono i film come 12 Years A Slave e Selma che vengono premiati (altrimenti sei un razzista, no?), mentre un film su una realtà come la queer blackness poteva benissimo essere snobbato o appena riconosciuto da una Hollywood che ha ancora un bel po’ di problemi a confrontarsi con protagonisti che non siano uomini bianchi, cisgender e etero (basta ricordare la polemica dell’anno scorso sugli #OscarsSoWhite, e i tanti problemi che l’industria del cinema ancora ha e di cui abbiamo parlato qui). Un rischio che ha pagato, perché non c’è una cerimonia di questa awards season in cui non si sia sentito il nome di Moonlight.
Giusto per citare i premi più conosciuti (ma la lista completa la potete trovare qui), c’è la vittoria ai Golden Globes per Best Motion Picture — Drama; le cinque nomination agli Independent Spirit Awards, le quattro ai BAFTA; soprattutto, ci sono le otto nomination agli Oscar: Best Picture (vinto), Best Director, Best Adapted Screenplay (vinto), Best Cinematography, Best Score, Best Film Editing, Best Supporting Actor (vinto) e Best Supporting Actress. Un successo meritato e che fa sperare in un futuro in cui i film come questo non saranno più un rischio, una perla rara, ma la norma in un panorama cinematografico sempre più inclusivo, che, come Mahershala Ali al suo discorso di ringraziamento ai SAG Awards, ci insegni a non scendere in guerra per le nostre differenze ma a vedere l’uno nell’altro cosa ci rende umani.
«Penso che quello che ho imparato lavorando a Moonlight è che vediamo bene quello che succede quando si perseguitano le persone. Si ripiegano in loro stesse. E sono molto grato di aver avuto l’opportunità di interpretare Juan, un uomo che ha visto un ragazzo ripiegarsi in se stesso come risultato della persecuzione della sua comunità e ha colto l’occasione per sollevare il suo spirito, dirgli che era importante, che stava bene, e che lo accettava. Spero che continueremo sempre a farlo anche noi, e sempre meglio.
Ci facciamo spesso prendere troppo dalle minuzie e dai dettagli che ci rendono diversi, e penso ci siano due modi di gestire la cosa. C’è l’opportunità di vedere la filigrana di una persona, le caratteristiche che la rendono unica, e poi c’è la possibilità di combatterci sopra, dire che quella persona è diversa da me e quindi non mi piaci, quindi prendiamoci a botte.
Mia madre è un pastore protestante, ordinata e praticante. Io sono musulmano. Non ha di certo fatto i salti di gioia quando l’ho chiamata, diciassette anni fa, per dirle che mi ero convertito. Ma adesso vi dico questo – si mettono da parte delle cose, e io adesso posso vederla nelle sue convinzioni e lei nelle mie. Ci vogliamo bene. È l’amore quello che ha vinto. Tutto il resto sono minuzie. Non sono importanti.»
Questi Oscar sono anche una risposta alle polemiche dell’anno scorso ma mi pare che hollywood oggi abbia sempre meno problemi a confrontarsi con protagonisti che non siano bianchi etero. Moonlight è un film delicato, perfetto, bellissimo ma non è il solo che racconta la fragilità maschile, le emozioni maschili sono raccontate in tanti film così come quelle femminili(anche i super-eroi hanno super-problemi!). La mascolinità nera è giusto che sia raccontata al cinema in ogni sua sfaccettatura, da quelle più “tradizionali” o presune tali, che esistono a quelle più insolite o presunte tali che pure esistono. Non concordo sulla Vita D’adele, non è feticista, le scene di sesso (crude e bellissime) non erano gratuite, erano necessarie e in linea con la storia che è una storia d’amore
Hollywood in generale, probabilmente sì, piano piano sta migliorando anche lui: ma gli Academy? Loro non proprio. Moonlight è, per esempio, il primo film a tematiche LGBTQ a vincere. E considerato che gli Oscar danno fama e prestigio e sono considerati come il riconoscimento della massima espressione del cinema, è giusto che comincino a guardare un po’ oltre al loro giardino. Non metto in dubbio anche che ci siano tanti film sulla mascolinità, ma di solito sono su quella bianca (e se anche i supereroi hanno momenti di dubbio non vengono di solito mai mostrati così abbattuti come in Moonlight. O meglio, vengono mostrati abbattuti sapendo che questa loro fragilità scomparirà quando ritorneranno per la battaglia finale), non su quella nera, che si potrebbe discutere essere per certi versi più “severa”.
Per quanto riguarda la Vie d’Adèle, non so, quelli poi sono gusti: ci sono molte cose dello stile di Kechiche che non mi sono piaciute in quel film, dal sesso alla pasta. Ripeto, sono gusti.
Anche film come Paterson o Manchester by the sea sono interessanti da questo punto di vista
i super-eroi maschi e femmine sono comunque “super” quindi la battaglia finale ci deve stare (e in generale mostrare che ci si può riprendere dai momenti di abbattimento anche se non si hanno super-poteri non è inverosimile, succede, tutti/e possiamo essere fragili, provare paura ma essere bloccati dalla paura e dalla nostra legittima fragilità non è un bene)