È di poche ore fa la notizia dell’arresto della ventunenne iraniana attivista per i diritti civili Shima Babai, prelevata dall’IRGC (Islamic Revolutionary Guard Corps) il 25 maggio dalla casa del padre senza precise accuse. Le sono stati sequestrati alcuni manoscritti, gli effetti personali e il telefono cellulare e attualmente è rinchiusa nel carcere di Evin, a nord-ovest di Teheran, luogo simbolo della repressione governativa.
Questa prigione è nota (o meglio, ufficialmente non è nota) per le sevizie e le torture operate dai carcerieri nei confronti dei detenuti, come si può leggere in una testimonianza di Jashmid Amini, che ad Evin ha passato sette anni della sua vita prima di riuscire a fuggire (il racconto delle torture subite è particolarmente forte, forse non adatto a tutti).
La Babai era già stata arrestata due settimane fa insieme ad altri due ragazzi, ma il rilascio fu pressoché immediato. L’incarcerazione di attivisti purtroppo non è nuova in un Paese come l’Iran, governato da un regime che storicamente è contro qualsiasi tipo di attivista politico; un Paese in cui i due blocchi, quello religioso e quello politico, vanno molto spesso a braccetto e in cui le donne, nella maggior parte dei casi, vengono discriminate per il solo fatto di essere donne.
Su internet, in particolar modo su Twitter (che in Iran è è vietato, così come Facebook) si sono già scatenate petizioni e richieste di scarcerazione con l’hashtag #freeshimababai, a cui noi ci uniamo in nome della libertà d’espressione e della lotta per i diritti civili.