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Unito, diciamo basta alla violenza
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Unito, diciamo basta alla violenza

Articolo di Rachele Agostini

No, non ho sbagliato a scrivere il titolo. È proprio “Unito”.
Unito nel senso di Università di Torino.

In tre anni di frequentazione mi sono spesso trovata a lamentarmi della mia Università: aule tenute male ed omologate per la metà della gente che ci sta effettivamente dentro, esami cancellati a poche ore dall’inizio, un sito internet che funziona solo nei primi cinque giorni dispari dei mesi che iniziano per vocale ed impiegati di segreteria che nella maggior parte dei casi, non sapendo scegliere tra maleducazione ed incompetenza, hanno voluto possedere entrambe le cose.
Ma poi, senza alcun preavviso, capitano delle cose che restituiscono anche per poco un po’ di fiducia nel sistema universitario – italiano in generale, torinese nello specifico.

Pochi giorni fa, in occasione della Giornata Mondiale per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne, abbiamo avuto modo di parlarne ampiamente come redazione: la violenza sulle donne – come ogni altro tipo di violenza – continua ad essere una piaga della nostra società, a cui si deve rispondere con tutto ciò che violenza non è.
L’ONU aveva in mente proprio questo quando nel 1999 istituì una ricorrenza in proposito, in cui organizzare seminari, incontri, manifestazioni ed eventi artistici di ogni genere tutti incentrati sul tema; e proprio questo è ciò che si è sviluppato intorno al 25 novembre fra aule e locali della mia città.

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Se c’è una speranza per il nostro mondo sono i giovani a stringerla tra le mani, e vedere l’entusiasmo con cui questi eventi sono stati organizzati da un’istituzione importante per la formazione di così tanti di noi, è stata un’esperienza rigenerante.
Il programma comprendeva (comprende, dato che ancora non si è concluso):
•  una serie di lezioni che ogni facoltà ha dedicato ad aspetti della questione più
inerenti a ciascun piano di studio
due seminari che hanno visto la partecipazione di esperti volontari dell’Associazione Telefono Rosa Torino [16 e 17 novembre] • una serie di repliche dello spettacolo “Ferite a Morte”, realizzato dal Teatro della Caduta [24 e 25 novembre – 3, 4 e 5 dicembre] • una conferenza, svoltasi proprio il 25, in cui sono state tirate le somme di quanto detto nei due seminari ed è stato presentato brevemente lo spettacolo [grazie anche alla partecipazione dell’autrice del libro da cui esso è tratto, la conduttrice Serena Dandini]

In quest’ultima occasione in particolare, tante sono state le rivelazioni che ho ricevuto, tra cui prima di ogni altra proprio il fatto che su questo tema ero molto meno informata di quanto pensassi.
Gli interventi che si sono susseguiti nelle due ore di incontro sono state strutturati come una lezione (come è logico per un’università), costruendo un discorso unitario.


Laura Scomparin [direttrice del dipartimento di Giurisprudenza che ha ospitato la conferenza] e Carmen Belloni [Dottoressa in sociologia ed insegnante del nostro ateneo] sono intervenute per prime e ci hanno fatto riflettere sulla gravità e diffusione del fenomeno, basandosi su statistiche redatte recentemente nel nostro Paese.
Subito dopo, le testimonianze di Margherita e Giulia – due studentesse “comuni” che hanno preso parte al seminario del 16 e 17 novembre e si sono viste affidare il difficile compito di raccontarci ciò che in quei due giorni è successo – si sono alternate agli illuminanti interventi ad opera di Elena Bigotti ed Anna Ronfani, due avvocati che da anni si dedicano alla causa degli abusi subiti dalla popolazione femminile e che hanno incentrato i propri discorsi sul modo in cui la violenza viene raccontata.
La conferenza si è conclusa infine con un breve intervento dello psicologo Gabriele Traverso – che ha fornito una prospettiva diversa in quanto unico oratore di sesso maschile – ma soprattutto con l’arrivo di Serena Dandini, che con la “scusa” di presentare lo spettacolo tratto dal proprio libro, ci ha regalato una serie di dichiarazioni preziosissime e spiazzanti, nella loro semplicità.

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Come ho già detto, in una manciata di ore ho scoperto tante cose.
Ho scoperto che per un italiano su tre la violenza sulle donne è ancora “un fatto da risolvere in privato” [cfr report rosa shocking], ma negli ultimi anni il numero di coloro che scelgono di rompere il silenzio in proposito è aumentato sensibilmente [cfr rapporto ISTAT del 2015 e 2013].
Ho appreso che più del 25% delle donne che sono in una relazione di coppia subisce/ha subito abusi psicologici, e che solo il 5% degli uomini che commettono violenze è affetto da patologie mentali e dunque non consapevole di ciò che sta facendo.
Ho imparato che i media riescono a trasformare in business anche un argomento come questo: ci vengono mostrati solo volti tumefatti e sangue come se fosse l’unico caso in cui si può parlare di violenze, e ci vengono proposte sempre immagini di donne giovani e belle come solo loro potessero subirle (una strafiga con la faccia rovinata dalle botte “fa più audience” di una sessantenne che viene abusata verbalmente ogni giorno).
Ho imparato infine che è importante prestare attenzione alle storie delle vittime purché così facendo non ci si dimentichi – come spesso accade – dei carnefici, e ho imparato anche che vittime non è in realtà il termine corretto per definire queste donne [in ambito giuridico si parla di persone offese] perché così facendo le si priva della propria identità, riducendole ad uno stereotipo ambulante che non è d’aiuto a nessuno.

Vorrei concludere il mio racconto augurandomi (augurandoci) che iniziative come queste non smettano di crescere in numero e popolarità, e citando il pensiero con cui Serena Dandini ne ha riassunto, a mio avviso, lo spirito:

La violenza, sulle donne in particolare, è ciò che di più democratico ci sia al mondo, ed io sono stufa. Sono stufa del 25 novembre (e dell’8 marzo), se poi per tutto il resto dell’anno non si affrontano mai queste questioni.
Sono stufa di parlare di “femminicidio”, perché quello è un finale che nessuno si augura, ma di tutta la vita infelice che viene prima non si parla mai.
Sono stufa, soprattutto, di rivolgermi solo alle donne: gli uomini devono stare a sentire, nel momento in cui si disinteressano di questi problemi ne diventano complici; non è un problema delle donne e basta, se non combattiamo tutti insieme non si vincerà mai.

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