Con l’espressione “violenza sugli uomini” si intendono fenomeni molto diversi fra loro, per i quali dovrebbero esserci parole ed espressioni specifiche che invece non abbiamo. Questo anche perché i men’s studies in Italia sono ancora pochissimo diffusi, mentre i pregiudizi e i luoghi comuni sull’identità maschile sono molto popolari. Il risultato è una pericolosa confusione tra argomenti e ambiti diversi, che necessita di un chiarimento prima di poterne parlare. Sostanzialmente, con l’espressione “violenza sugli uomini” si possono intendere tre cose ben distinte e differenti, che andremo ad analizzare.
Cosa si intende con “violenza sugli uomini”?
1) “Violenza sugli uomini” come risultato di comportamenti violenti (crimini, reati, condotte socialmente esecrabili o contro il buonsenso comune) che hanno come vittime persone di sesso maschile. Questo è il caso più generico, già conteggiato e rendicontato da molti anni dall’ISTAT e da numerosi altri istituti delegati a queste ricerche sociali. Gli uomini sono statisticamente i principali autori di crimini, reati e condotte violente che hanno per oggetto persone del proprio stesso genere: possiamo quindi ritrovare una tendenza assodata da secoli, quella per cui “gli uomini si ammazzano tra loro”. Questo accade sia perché le persone armate sono perlopiù uomini, sia perché i lavori e le pratiche violente sono ad appannaggio prevalentemente maschile, e anche perché donne e bambini sono di solito considerati “non importanti” come vittime o oggetto di pratiche violente del tipo sopracitato (questo non vale certo per altre forme di violenza) e vengono quindi tenute e tenuti sostanzialmente fuori da generiche pratiche di violenza (guerre, faide familiari, crimini da associazione, persecuzioni di varia origine). Questo tipo di violenza sugli uomini non è considerata come “questione di genere” perché non dipende da una precisa scelta verso le vittime, spostando invece l’attenzione sugli autori: ossia, è una questione di genere solo in quanto gli uomini sono da sempre considerati gli unici e i più “adatti” a occuparsi di guerre, combattimenti, faide, vendette, eccetera. Quindi se volessimo considerare questo tipo di violenza come una violenza di genere gli uomini dovrebbero cominciare a interrogarsi tra loro sul perché si considerano tra loro carne da macello così tanto spesso e da così tanto tempo da essere sempre i primi a morire in caso di guerre, azioni criminali, persecuzioni razziali o religiose o sociali, atti di insubordinazione o di repressione e contesti similari. Ne parleremo più avanti.
2) “Violenza sugli uomini” come risultato di particolari condotte violente che tipicamente hanno come vittime persone di sesso maschile. Un caso su tutti è quello dei suicidi: il numero di persone che si tolgono la vita è clamorosamente sbilanciat0; in tutti Paesi occidentali (quelli dei quali abbiamo da più tempo cifre attendibili) le donne si suicidano molto meno spesso degli uomini. Perché? C’entra il genere? Anche in questo caso la risposta è positiva se il problema dei suicidi viene considerato come una possibile questione di genere. Premesso che è unanimemente considerato estremamente complesso e aleatorio fare una statistica sulle cause dei suicidi (purtroppo solo le vittime potrebbero correttamente spiegarle), non può essere un caso che tenda a uccidersi molto più spesso proprio il genere che si attribuisce e detiene saldamente le principali responsabilità della gestione sociale: gli uomini comandano, sono i capofamiglia, sono i manager e i decisori politici, sono numericamente superiori nelle attività lavorative, nella gestione della cosa pubblica, nelle forme d’arte professionali, nello sport e nella comunicazione – e si tolgono la vita quattro volte più spesso delle donne, un rapporto in aumento costante. Sarebbe davvero il caso che gli uomini si parlassero tra loro, perché quello del suicidio è sempre più evidentemente un problema di genere, un problema del genere maschile. E invece non succede. Anche di questo parleremo tra poco.
3) “Violenza sugli uomini” come quella subìta dagli uomini in quanto uomini, cioè per caratteristiche specifiche attribuite al loro genere e che li rendono particolarmente vulnerabili in determinate occasioni da chi li ritiene manchevoli o eccedenti proprio in relazione a quelle caratteristiche. Anche questi casi sono storicamente accertati da molti anni, c’è una vasta letteratura in merito; ci è così possibile farne un rapido elenco:
– violenza omofoba: quella che ha per oggetto un uomo che “non si comporta da uomo”
– bullismo: violenza ripetuta e sistematica perpetrata da un soggetto che reputa la vittima più debole e/o incapace di difendersi
– nonnismo: la violenza subita da chi viene a contatto con un ambiente rigidamente gerarchico che richiede da parte dei membri più anziani una “sottomissione” dolorosa come prova d’ingresso nella gerarchia (può essere considerata anche come forma di bullismo)
– mobbing: la sistematica persecuzione sul posto di lavoro esercitata da colleghi o superiori verso chi viene perciò emarginato, sabotato o psicologicamente colpito (anche questa viene a volte considerata una forma di bullismo)
– violenza domestica: sono sempre più numerosi i casi accertati di uomini, membri di coppie omosessuali unite legalmente o comunque conviventi, che denunciano il proprio compagno che abusa di loro in vari modi, esattamente come accade nelle coppie eterosessuali
Chi fa violenza sugli uomini?
Numericamente non c’è alcun dubbio: che siano quelle considerate come violenze di genere o che siano quelle per definizione violenze di genere, in entrambi i casi la tipicità delle violenze subìte dagli uomini è che a commetterle siano altri uomini. Il dato è ormai consolidato ma è molto difficile da diffondere quello che si ricava dalle ricerche compiute nelle zone di guerra, nelle carceri e in altre situazioni “tabù” per i media generalisti: anche gli stupri tra maschi eterosessuali sono in clamoroso aumento, perché la violenza sessuale tra maschi etero è considerata (sulla scorta di un latente pensiero omofobo diffuso) come la peggiore “punizione” per il maschio che non si comporta secondo le regole imposte da chi comanda, chi vince, chi ha il potere – ossia, altri maschi.
Le difficoltà che si incontrano nel diffondere questo dato di fatto – i maschi subiscono la maggior parte delle violenze di genere da altri maschi – sta proprio nel radicato intreccio di pregiudizi, tabù, luoghi comuni che costituiscono la maggior parte della cultura maschile; questo unito alla pessima abitudine sociale tipica del comportamento dell’uomo medio (figlio della società che glielo ha insegnato) di non parlare dei propri problemi. Nella comune e diffusa percezione dell’identità di genere maschile nessuno scontro tra uomini è considerato sintomo di un problema di genere: che i maschi lottino tra loro è la normalità, la regola, l’ovvio comportamento; quindi questa violenza esce letteralmente dal campo visivo e percettivo. Anche per questo gli uomini non ne parlano: per quanta violenza possano aver subìto nella loro vita da parte di altri uomini, essa viene considerata frutto di spiacevoli occasioni, sfortune inevitabili. Quindi non se ne parla, come non si parlerebbe più di tanto di un acquazzone improvviso o della foratura di uno pneumatico. Non ci si accorge dei comportamenti violenti tra uomini fino a quando diventano veri e propri reati, e anche allora molti di essi sono considerati non comportamenti che potevano essere evitati perché generati da una distorta costruzione della propria identità di genere, quanto occasionali e disgraziate deviazioni da una “regolarità” di comportamento che vede gli uomini custodi dell’ordine, della razionalità, del buon funzionamento della società.
La costruzione dell’identità maschile
Non appena ci si rivolge alla letteratura sull’argomento, agli studi e alle ricerche, si nota da diverso tempo e fonti assai diverse (educative, sociologiche, etnografiche, antropologiche, femministe, filosofiche…) una convergenza intorno a quella che chiaramente è l’origine di tutte queste situazioni, l’origine della violenza di genere subita dagli uomini: l’identità di genere dei maschi eterosessuali. Questa ha tre caratteristiche principali ormai evidenziate da tutti gli studi condotti, e più precisamente:
1) L’assoggettamento continuo, simbolico e/o “fisico”, dell’elemento femminile, sia nei corpi femminili che lo realizzano sia nei corpi maschili che non si adeguano all’espressione continua di una mascolinità tradizionale eterosessuale (machismo) e che quindi come tali non sono considerabili “uomini”. Assoggettamento che con il manifestarsi delle diverse identità di genere nelle società occidentali, dovute alla (finalmente!) liberazione lenta ma progressiva di soggettività non binarie, colpisce in vario modo praticamente chiunque non sia manifestamente un “maschio etero cisgender”.
2) Il divieto, la prescrizione, l’orrore verso l’omosessualità, percepita come un vero e proprio pericolo, una minaccia, un’offesa verso l’eterosessualità maschile e quindi perseguita anche simbolicamente come “il nemico”, come ciò che impedisce una corretta vita relazionale e sessuale a chi è eterosessuale. Con la differenza che, ovviamente, l’uomo tacciato di comportamenti o condotte “omo” subisce una violenza che lo punisce per la sua devianza, per la sua irregolarità, per la sua mostruosità, mentre la donna omosessuale subisce violenza anche perché la sua condotta ne esclude il corpo dalla normale disponibilità eterosessuale maschile, come in una specie di “furto”, di “sottrazione” di un bene normalmente a disposizione. Il tutto è ancora più esasperato e aggravato nel caso di persone transgender.
3) La discriminazione pregiudiziale verso l’elemento “straniero”, che può essere simboleggiato da un colore della pelle differente dalla maggioranza o da un’origine territoriale o etnica diversa, ma che serve ad alimentare una diffidenza – che si riflette in una precisa gerarchia di genere – per quel maschile che potrebbe non condividere la stessa matrice culturale che ha nel cameratismo fra uomini la sua espressione più propria.
Queste tre caratteristiche sono tutte evidentemente scaturite dalla società di appartenenza, quindi non possono dipendere in alcun modo dalla “natura” maschile. Proprio per questo motivo esse sono sempre espresse pubblicamente in comportamenti evidenti e non equivocabili, vere e proprie performance di genere – che sono anch’esse, in molti casi, violenze a sé. In altre parole, nella stragrande maggioranza dei casi gli uomini non subiscono violenza a causa di azioni deliberate da parte di altri uomini che vogliono imporre la loro volontà per qualche scopo particolare, ma la subiscono da quelli che stanno semplicemente agendo la loro identità di uomini nel modo più comune in cui s’impara ad agirla: imponendola con la forza ai propri simili. Nel caso più frequente della violenza simmetrica e competitiva, gli uomini sono contemporaneamente carnefici e vittime, agenti e succubi, colpevoli e colpiti, perché sono sempre loro ad avere la necessità di ribadire l’uso della violenza come strumento per conservare la propria identità di genere.
Replicare i comportamenti maschili
Di fronte a questo modello di identità di genere, e stante la posizione di attuale privilegio ancora riservata agli uomini etero, non devono stupire quelle donne che infliggono agli uomini violenze psicologiche e fisiche, appropriandosi di dinamiche di violenza maschile: non sono affatto eccezioni e non sono casi che esulano da quanto descritto qui sopra. L’esiguità percentuale di questi casi (tra i detenuti per stupro solo l’1% è donna, tanto per fare un esempio) è facilmente spiegabile col fatto che le donne “educate” a valori comportamentali maschili (e che quindi agiscono violenza secondo il modello maschile) sono molto poche e non rappresentano certo una questione di genere a parte: sempre di violenza maschile si tratta, perché, pur essendo subita da uomini e perpetrata da donne, queste ultime stanno replicando un modello di azione e di efficacia tutto maschile.
Periodicamente sono diversi gli studiosi e le studiose che tentano di mettere insieme numeri che non esistono per parlare di una violenza subita dagli uomini per mano delle donne, ma non riescono comunque a evitare i risibili discorsi e argomenti fake riconducibili a note assurdità come “negare il sesso a un uomo è una forma di violenza” oppure “noi brutti non abbiamo accesso ai corpi femminili” o ancora “le mense per i poveri sono piene di uomini ridotti sul lastrico dalle loro ex mogli”. Se e quando queste supposte forme di violenza diverranno tali, o usciranno numericamente dalle eccezioni per diventare veri e propri fenomeni sociali, non mancheranno gli studi e i numeri forniti da persone non schierate né parziali. In modo da non essere, come invece è adesso, tutta la letteratura in merito composta da argomenti fallaci e strumentalizzati per attirare attenzione o per non voler ammettere l’esistenza dei reali problemi sociali che colpiscono gli uomini: uno su tutti, il patriarcato, con le sue ipocrite e violente assunzioni sul carattere maschile e sull’identità di genere maschile.
Grazie per questo articolo, molto interessante ed utile. In effetti, sempre più spesso a ridosso del 25 novembre si sente parlare di violenza perpetrata dalle donne sugli uomini, portando come “dato” a favore di questa tesi una ricerca del 2012 dell’Università di Siena. Lei conosce questa ricerca? Mi può dire qualcosa? La possibilità di ribattere a chi rileva l’esistenza di violenza di genere perpetrata delle donne sugli uomini, soprattutto domestica, risiede prevalentemente in una differenza numerica (cioè il fatto che siano comunque ancora solo delle eccezioni) oppure Lei aggiungerebbe anche altro?
Elisa quella ricerca è stata ampiamente smentita, come puoi leggere per esempio qui:
https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2012/11/15/in-risposta-alla-dott-ssa-pezzuolo/
Sulla cosiddetta violenza di genere delle donne sugli uomini risponderò in un prossimo articolo – c’è molto da aggiungere ai numeri.
Riguardo lo studio citato ho pensato anch’io ho avuto alcune perplessità , tuttavia ci sono altre voci che mi sembrano più autorevoli.
Ad esempio questo che cita diversi studi interessanti (seppure basati sulla realtà americana):
https://www.ilvasodipandora.org/estendere-i-centri-antiviolenza-alle-vittime-maschili-un-atto-doveroso/
Anche il caso di Erin Pizzey, la fondatrice del primo rifugio antiviolenza sulle donne inglese, è degno d’interesse: già negl’anni ’70 ha messo in dubbio che la violenza fosse così unilateralmente generata dall’uomo nei confronti della donna.
https://en.wikipedia.org/wiki/Erin_Pizzey
Sono contesti diversi da quello italiano, è vero, ma non credo che la differenza culturale tra le realtà realtà angloamericana e italiana sia così rilevante da ribaltare la situazione.
Purtroppo Eros io ho alcune perplessità sia sugli studi di Erin Pezzey, parecchio datati sia lei che i suoi studi, sia di Straus (per l’articolo) che anche lui in quanto a dati vecchi e visioni del problema ancora più vecchie non scherza. Stiamo parlando di studiosi per i quali la definizione di violenza non è più accettata da decenni. Quando si citano gli studi sarebbe necessario informarsi sugli autori e su che criteri hanno usato, o si fa lo stesso errore di chi legge le statistiche sulla Svezia e sentenzia che da loro si fanno molte più violenze sulle donne che da noi. Poi ci si accorge della definizione di violenza di genere in Svezia, e del fatto che la denuncia non è problematica come da noi, e si capisce il tutto.
Che debbano esistere luoghi dove anche gli uomini possano trovare aiuto quando subiscono violenza mi pare più che giusto. Che gli uomini debbano interrogarsi un po’ meglio sul concetto di violenza, e capire perché vogliono centri per quella che secondo loro è domestica e non fanno la stessa veemente richiesta per la violenza subita sul luogo di lavoro o da chi gliela pratica ma è del loro stesso sesso – ecco anche questo dovrebbero chiederselo, e prima. E in più, aggiungo che non c’è alcun bisogno di studi che dimostrino la “parità” della violenza, perché va fermata anche se interessasse una piccola percentuale. Tutta questa fregola per dimostrare che “anche le donne” la chiamo più semplicemente coda di paglia – definizione scientifica quanto certe ricerche.
Vi ringrazio per la cortese risposta, suppongo lei sia più informato di me sulla questione, non avendo mai trovato articoli che andassero a smentire Pizzey, Richard Gelles o altri avevo preso per valide le loro conclusioni.
Riguardo il fatto che non ci sia un’adeguata richiesta di affrontare questioni come mobbing, bullismo e altra violenza non sono daccordo, mi sembra che l’attenzione sia piuttosto alta su questi temi.
Credo che l’impressione che gli uomini non ne diano rilievo derivi anche dal fatto che non c’è un movimento maschile organizzato che dia voce agli uomini in quanto uomini, almeno non paragonabile a quello femminile. Ma, anche se ci fosse, non so se darebbe l’attenzione a problemi cui la società sembra già dare una certa importanza, invece di porre l’evidenza su un problema che resta trascurato.
in gran parte è tutto vero. ma oggi l’identità maschile si può vivere in modi molteplici
Per tutti quelli che ancora, a distanza di settimane, continuano a mandare come risposta sensata a questo articolo la pseudoricerca di Macri’: è stata smentita nel metodo e nelle conclusioni anni fa. Se non avete altro, a parte questa risibile fonte e le domandine anni ’70 cui si è già risposto appunto mezzo secolo fa, studiate di più e meglio. Io la bibliografia l’ho lasciata.