Articolo di Rachele Agostini
A gennaio è nato Sinossy, il book club di Bossy. Siamo felici delle risposte positive e incuriosite che abbiamo ricevuto; siamo ancora più felici di presentarvi il secondo libro, scelto per il mese di febbraio: “E poi basta” di Espérance Hakuzwimana Ripanti, edito da People. Abbiamo intervistato Espérance per discutere del suo romanzo – e di molto altro.
Non riesco a ricordare la prima volta che sono capitata sul suo profilo Instagram. Ricordo solo che avevo seguito il suggerimento di qualcuno ed ero andata a guardare le sue storie, e che ancora prima di farlo ero rimasta colpita dal nome che si era scelta: @unavitadistendhal. Stendhal, come quello della sindrome che ti fa stare male davanti alla bellezza troppo intensa.
Espérance Hakuzwimana Ripanti è una scrittrice e attivista italiana. E forse non mi ricordo di averla conosciuta, nonostante non possa essere stato più di un anno fa, perché leggendo le didascalie dei suoi post mi è sembrato da subito di poter toccare il dolore che raccontava; e perché mi è bastato incontrarla, durante una manifestazione nella nostra Torino, per avere la sensazione di conoscerla da molto tempo.
Espérance è nata in Ruanda nel 1991, ha trascorso infanzia e adolescenza in provincia di Brescia, ha cominciato a Trento i suoi studi universitari e ora vive a Torino, dove da qualche tempo fa parte del comitato “Razzismo Brutta Storia” e parla di libri e attualità in un programma tutto suo su Radio RBE.
Dal 31 ottobre 2019 è nelle librerie con “E Poi Basta – Manifesto di una Donna Nera Italiana”, edito da People, progetto editoriale indipendente nato da un’idea di Giuseppe Civati, Stefano Catone e Francesco Foti che – citando la definizione proposta dal loro sito – si propone di “indagare il cambiamento nella società e raccontare persone, battaglie e trasformazioni”.
E sono proprio battaglie e trasformazioni, quelle che racconta Espérance. Le sue. La sua vita da donna nera e italiana e la difficoltà di essere entrambe le cose in un mondo che spesso non glielo permette. Il sogno di essere scrittrice che è nato in lei prima di quanto possa ricordare, e l’impegno di attivista che invece le è piombato addosso senza che lo avesse chiesto.
Abbiamo voluto fortemente che il suo libro facesse parte del nostro progetto Sinossy, perché le parole che usa ci fanno entrare nel suo dolore privato in punta di piedi, ma allo stesso tempo bucano le pagine e ci sbattono in faccia la realtà razzista in cui viviamo. Perché la sua storia parla ai bianchi – che una volta tanto possono farsi raccontare da chi lo vive cosa è il razzismo anziché provare a insegnarselo da soli – e parla a chi, come lei, non è bianco e allo stesso tempo è italiano e può vedersi riflesso nella sua esperienza.
Abbiamo avuto la fortuna di farci raccontare tutto questo direttamente da lei.
Vorrei iniziare chiedendoti come hai trovato una casa a questo tuo libro, o se è stata lei a trovare te. Insomma: come è nata la collaborazione con People?
La cosa più bella di tutta questa storia sta nella grandissima casualità che l’ha fatta nascere. Tramite amici e fili rossi improbabili mi sono ritrovata a presentare un libro importante in una libreria in centro a Torino. Il libro si chiamava “Lettera agli italiani come me”, la sua autrice Elizabeth e la casa editrice era proprio People. Con altri due ragazzi abbiamo presentato questo testo sulla legge della cittadinanza e le sue conseguenze assurde ed è subito nata un’atmosfera familiare e bellissima. Da lì la casa editrice mi ha scritto e al Salone del Libro di Torino 2019 ho incontrato Giuseppe Civati davanti a un caffè. Mi ha detto “Per noi puoi scrivere tutto quello che vuoi”, e lì ho capito che avevo trovato il posto giusto per le mie parole.
So che è una domanda banale, ma so anche che la risposta è il miglior punto di partenza possibile per raccontare questo libro: perché “E poi Basta”?
Probabilmente il titolo nacque già lì, mentre ero circondata da libri ed editori nella fiera del libro più bella d’Italia, ma ancora non lo sapevo. Ci sono volute tre stesure, qualche notte insonne e molti titoli proposti o inventati nel mezzo. “E poi basta” mi è caduto dal cuore in un giorno strano di inizio settembre: ero agli sgoccioli per le consegne e continuavo a pensare a quale fosse il messaggio per questo libro, che cosa avrei voluto dire, che cosa avrei voluto lasciare. Poi ho capito che in realtà con questo testo, a parte la mia esperienza personale, non potevo e non volevo lasciare altro se non un senso di libertà necessario. Per me, prima di tutto. “E poi basta” è un monito che parte da dentro, che mi serve per ricordarmi che cosa ho sempre sognato di essere (una scrittrice!) e cosa invece il mondo continuava a chiedermi di diventare (un’attivista, un simbolo per la comunità afrodiscendente, un jolly etc). Un punto di inizio. Io scrivo questo manifesto, lo porto in giro, lo condivido con chi lo può capire e con chi nemmeno lo immaginava. Lo faccio, mi apro, mi scopro su questioni importanti come razzismo, discriminazioni, colorism, adozione internazionale; poi però inizio la mia vita da professionista – se così si può chiamare. Mi concedo la libertà di essere e di diventare quello che voglio, senza dovermi per forza portare appresso sempre i soliti termini, le solite tematiche e le stesse identiche domande. “E poi basta” è perfetto per ricominciare, per partire avendo posto delle basi solide, coerenti e intellettualmente oneste.
Restiamo sul titolo ancora un momento. Anzi, sul sottotitolo: “Manifesto di una donna nera italiana”. Perché era importante che la parola “donna” ci fosse, e che fosse prima di tutte le altre?
Ho insistito per il termine “donna” perché vivo in un Paese in cui è complicato (se non impossibile) essere adulti. Anche se ho 28 anni, un percorso di studi articolato, esperienze lavorative alle mie spalle e la chiara idea di cosa fare e di cosa diventare, incontro sempre qualcuno che non mi considera esperta abbastanza, professionale abbastanza, adulta abbastanza. L’ho scelto per il percorso che il mio corpo e la mia vita mi hanno portato a fare. È un procedimento articolato e meraviglioso, una scoperta continua e faticosa. Ho scoperto negli anni che mi piace essere donna, mi piacciono i sentieri tortuosi che questa esistenza e situazione mi costringono ad affrontare e mi piace anche ritrovare quella sensibilità che troppo spesso viene screditata. Scrivendo questo libro mi sono stupita e rivalutata come donna, mi sono scoperta femmina possibile e ne sono felicissima!
L’esigenza di impegnarti nella lotta al razzismo, e quindi anche l’urgenza che hai sentito di scrivere questo manifesto, ha una data di inizio precisa che citi proprio all’inizio del libro. Ce la racconti?
Ho ripensato centinaia di volte a quello che è accaduto il 3 febbraio 2018. Ho ripassato quel momento nella mia testa così spesso che lo conosco a memoria tanto da sapergli dare un nome. Mi trovavo a Brescia quando alla televisione passarono la faccia di Luca Traini e un sottopancia raccontava in poche parole quello che successe a Macerata in quella giornata che sarebbe dovuta essere come tutte le altre (e invece non lo era stata). Un uomo era uscito di casa per rivendicare un omicidio compiuto per mano di persone di origine straniera. Persone di origine africana, nere. Un motivo valido per prendere una pistola dal cruscotto e puntarla contro persone a caso con le stesse identiche caratteristiche. L’attentato di Macerata è stato uno dei punti di svolta della mia vita, insieme al genocidio ruandese del 1994, Genova 2001 e le torri gemelle pochi mesi dopo, Stefano Cucchi nel 2009…è stato un punto di non ritorno. E per la prima volta nella mia vita mi si è fermato il cuore per un sentimento che ho sempre conosciuto ma a cui per la prima volta, davanti a quella tv, sapevo dare un nome: paura. Ho avuto paura di morire, di essere colpita da un proiettile da un momento all’altro, di essere considerata diversa ancora più del solito, di attirare l’attenzione ma un’attenzione brutta, pericolosa. Non auguro a nessuno di sentirsi così. Impotenti, minuscoli, fragili e nudi, completamente vulnerabili davanti a un avvenimento nemmeno così lontano e che ti potrebbe sfiorare tranquillamente. Paura. E io non avevo intenzione di averne così tanta a soli 26 anni, non potevo.
Parlare della tua personale esperienza di donna nera italiana significa parlare di adozione internazionale. Dici di aver scoperto di essere nera quando avevi otto anni, cosa vuol dire?
Mi piace l’idea che nella cultura che ognuno si costruisce nel percorso e negli anni ci possano essere punti di riferimento che facciano sorridere di tenerezza chiunque. Io ho il mio: è un film d’animazione e si chiama “La gabbianella e il gatto”, tratto dal meraviglioso romanzo di Luis Sepúlveda. La mia infanzia da bambina adottata in un’adozione transrazziale e internazionale è stata piena di vuoti, di spazi bianchi in cui ci sarebbero dovute essere delle parole e invece io riuscivo a recuperare solo la mia vergogna, il silenzio inconsapevole dei miei genitori adottivi e miliardi di domande che si accavallavano creando stratificazioni di disagio e di timore. Ho capito di essere nera quando il mondo fuori dal cancello di legno ha incominciato ad insultarmi un po’ più forte, quando non trovavo le parole giuste per proteggermi e altre cose ancora. Tutte dolorose ma tutte senza nome. Ho capito di essere nera a 8 anni perché un cartone animato mi ha aiutato a capirlo. Ero esattamente come Fortunata, la gabbianella cresciuta dal gatto Zorba: convinta di essere gatto, di essere come il mondo che l’amava e la circondava. La gabbianella e il gatto mi ha dato le immagini giuste che anni dopo sono diventate parole. E quando ho trovato le parole ho trovato un senso, qualcosa di più potente di un disegno e anche la mia adozione ha trovato un senso, tutto mio, pieno di bellezza e dolore, ma comunque mio. E lo porto su questa pelle bellissima nel migliore dei modi.
Chi sono gli “antirazzisti wannabe” a cui dedichi un intero capitolo? E che suggerimenti dai a noi per cercare di non esserlo?
“Antirazzisti wannabe: suggerimenti” è stato il capitolo più bello che ho scritto. Perché mi sono divertita, perché ho riso e mi sono liberata di molti, moltissimi sassolini nelle scarpe. L’ho scritto e poi l’ho fatto leggere ai miei amici e contatti che avrebbero potuto capirlo a fondo perché nelle loro esperienze sono venuti a contatto proprio con loro. È stato un capitolo scritto a più mani che mi ha permesso di capire tantissimo il rapporto che l’Italia e i suoi abitanti “autoctoni” hanno con il diverso, lo straniero. Gli antirazzisti wannabe sono quei personaggi che si attaccano al petto la spilletta da “antirazzista”, mentre i loro comportamenti dimostrano tutt’altro. Persone, realtà e pensieri che si professano in linea con pensieri antidiscriminatori ma poi appena incontrano una persona di origine straniera la prima domanda che pongono è “Da dove vieni? Da dove vengono i tuoi genitori?”, pensando di fare una domanda normale e celando invece una curiosità non sempre apprezzata, non sempre richiesta. Persone che annoverano amici/parenti/coniugi/vicini di casa di qualsiasi tipo di etnia per avere il permesso di poter lasciare dichiarazioni (spesso agghiaccianti) su un tema che riguarda un Paese X dell’Africa o dell’Asia. Uomini e donne che mettono in mostra la loro capacità di essere empatici, accoglienti, aperti al prossimo solo se hanno la possibilità di mostrarlo tramite un hashtag, una foto o un documento da condividere sui social, salvo poi nella vita privata dimenticarsi tutto quanto. Volontari, viaggiatori che se ne vanno in giro per il mondo che per mostrare la loro magnanimità si fotografano in mezzo “a bambini poveri”, ignorando le regole della privacy e il rispetto della dignità di terzi. Persone così, persone che si autoassolvono quando qualcuno sottolinea i loro errori, le loro mancanze, e fornisce suggerimenti. Persone che dovrebbero smettere di ascoltarsi e gratificarsi ma che avrebbero bisogno di fermarsi ad ascoltare per davvero come si può essere e cosa significhi essere antirazzisti.
Il tuo amore per la lettura trapela da ogni pagina del tuo libro, quindi per concludere voglio farti parlare un po’ di libri, quelli degli altri. Ci suggerisci tre titoli, tra le tue ultime letture, che potrebbero in un certo senso espandere o continuare il discorso di “E poi basta”?
Ogni volta in cui mi pongono una domanda del genere mi esalto e mi preoccupo in contemporanea. Amo così tanto i libri, leggere e parlare di tutto ciò, che la mia quotidianità ruota attorno a queste azioni, e ne sono sempre entusiasta.
Le mie ultime letture significative sono state:
Il giusto peso – Un memoir americano, Kiese Laymond (Black coffee, 2019)
Un ragazzino afroamericano del Mississippi capisce che per crescere e per sopravvivere all’America del razzismo che trasuda ovunque, delle figure familiari che oscurano tutto, deve dare alle parole un senso molto più profondo dell’abisso che lo soffoca. Discriminazioni, un corpo che cambia, la storia che non cambia mai e un amore per la vita straziante, che quasi stordisce e non ti fa dimenticare questa storia fatta di bugie, amore, violenza e luce.
Piccolo paese, Gael Faye (Bompiani, 2017)
Una lettura che ho recuperato al volo dopo aver scoperto Faye su Instagram. Cantante, rapper, scrittore francese di origine burundiana di etnia tutsi da parte della mamma. In un romanzo di formazione intimo la storia di Gabriel si incrocia violentemente con la storia del Burundi. Gabriel è un bambino figlio di padre francese e di mamma ruandese, vive a Bujumbura con i suoi amici e con la sua vita normale. Tutto cambia e si stravolge con l’avvenimento del genocidio del Ruanda del 1994. La possibilità di poter sentire la distruzione di un Paese, dei sentimenti di chi lo abitava e di quelli che sono fuggiti senza mai dimenticare.
Due o tre cose che so di sicuro, Dorothy Allison (Minimum Fax, 2019)
Allison riesce a portare le colpe e gli strascichi di una famiglia patriarcale e violenta dentro le pagine di un libricino la cui lettura è dolorosa ma necessaria; tanto che non ci si stacca mai. Sospesi tra le parole e i ricordi delle donne della sua famiglia, di ciò che hanno subito e dovuto dimenticare, Allison srotola un memoir che sa di America e di soprusi, di rinunce, sbagli, non detti, ferocia e vendetta emotiva. Una storia che cresce con l’eco de “La bastarda della Carolina” (Minimum Fax, 2018) e un desiderio gigante e spezzato di una rivalsa femminile e umana.
Che vi dicevo? Sembra di conoscerla da sempre.