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Quando il gene “fashionista” è una bugia: uomini e moda tra storia e cultura

Quando il gene “fashionista” è una bugia: uomini e moda tra storia e cultura

Articolo di Nicola Brajato

Ed eccoci sempre qua, a parlare di moda.
Articolo dopo articolo, cerco di dare una definizione al termine “moda” che molto spesso viene evitata, a volte di proposito, altre volte no. Lo stigma è forte e, per chissà quale malsano principio, se sei interessato al fenomeno dell’abbigliamento perdi di credibilità.
Parlo per esperienza personale. Alla domanda “cosa studi?”, la mia risposta (Culture della Moda) crea molto spesso reazioni simili che possono essere riassunte in un impacciato e scomodo “ah!”, seguito da sorrisi imbarazzati e vari tentativi di cercare di sembrare interessati all’argomento (se mi va bene) o di cambiare discorso.

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Una passione. Un mondo ritrovato che unisce tanti piccoli aspetti che mi fanno guardare ciò che mi circonda con altri occhi. Ne sono felice, ma sotto-sotto mi sento anche un po’ “declassato”. La mia sembra quasi non essere una laurea, ma piuttosto un hobby, un passatempo, uno sfizio.
Quanti sono gli stereotipi che affliggono la moda, e, in particolar modo, chi si interessa ad essa? Molteplici: mangiatore di sedano, mero sfogliatore compulsivo di Vogue, superficiale, blogger, fashion victim, “cosa sono i libri?”, e potrei continuare. Ma il giudizio sembra gonfiarsi con asprezza accusatoria quando il diretto interessato è un uomo.

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Ed eccoci giunti all’oscuro determinismo biologico, un teatro nel quale i fili ci muovono per farci recitare la “nostra” parte, quella imposta dalla cultura egemonica. Il copione è già pronto, ad ognuno il suo e buona la prima. Un banale insieme di automatismi che vedono gli uomini e le donne separati e distanti tra loro, i primi a svolgere compiti razionali e impavidi, le ultime a dilettarsi con frivolezze e pettegolezzi. Quindi, nella piramide gerarchica patriarcale, l’uomo, che occupa l’apice, nel mettere in pratica mestieri che sono culturalmente prettamente “femminili”, viene relegato ad una condizione inferiore, alla base della piramide, perdendo quella posizione privilegiata che spetta al maschile e tutti i benefici che ne derivano.
Ma di cosa stiamo parlando esattamente? Può davvero una passione sottrarre mascolinità, femminilità e rispetto ad un individuo? Non dovrebbe esserci una particolare ed indipendente coscienza del soggetto, volta a un’autodeterminazione professionale? A quanto pare no. Le strade destinate ad ognuno di noi sembrano essere ancora ben battute e prestabilite.
Molto spesso in ambito professionale e di genere si fa riferimento alla scienza a alla tecnologia tralasciando le donne, creature prive di quei geni capaci di sviluppare una sensibilità acuta in questi settori.

Nella moda la situazione è analoga ma opposta. L’uomo è generalmente considerato privo del gene “fashionista”, ed è, proprio per questo motivo, considerato inadatto ed estraneo ai meccanismi e alle logiche di questo settore. Infatti, la percentuale di studenti di sesso maschile all’interno di corsi di laurea di moda – e umanistici in generale – è sempre inferiore rispetto a quella femminile.

Questione di geni o influenze culturali? Come ben sappiamo, quello del genere è un concetto storico-culturale. Ciò significa che i concetti di “maschile” e “femminile” hanno subito continue variazioni nel corso della storia e, insieme a loro, anche la visione della moda come interesse e mestiere.
Se diamo uno sguardo rapido all’interno della storia della moda, ci possiamo rendere subito conto di come sia stata un elemento molto importante per il genere maschile sotto tanti aspetti.

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Si pensi all’Aristocrazia Europea, ai grandi re, e a come abbiano utilizzato l’abito e la sua forza comunicativa come mezzo di affermazione della loro elevata posizione sociale. Alcuni monarchi dettavano vere e proprie leggi in materia di abbigliamento a corte. Ad esempio, verso la fine del Seicento, l’inglese Carlo II fu il primo ad indossare quelle soluzioni innovative, considerate “orientali”, che ben presto divennero molto ambite a corte, evolute successivamente nell’abito a tre pezzi formato da marsina, sottoveste e calzoni. Una tendenza che ben presto raggiunse l’aristocrazia francese.

Fu proprio Luigi XIV (1654-1715), il Re Sole, ad adottare la formalità inglese e a reinterpretarla con quel tocco di ostentazione lussuosa. Questa è l’epoca nella quale, in Francia, il maschile era esteticamente tradotto in parrucche, fiocchi, tacchi, trucco e strati di tessuto a volontà. E ripeto che sto parlando di sovrani, custodi della mascolinità dei loro tempi.

Ma chi produceva quei capi? Di chi erano le mani dietro la creazione di questi capolavori? Se attualmente lo stereotipo dell’essere gay aleggia su qualsiasi fashion designer uomo, scopriamo come nel passato non sia stato affatto così, almeno inizialmente.
Preciso che l’idea di stilista che abbiamo oggi – quella di un estro creativo alla base di un capo d’abbigliamento – è recente, poiché affonda le proprie radici a metà XIX secolo con il couturier Charles Frederick Worth. Di lì in avanti sarebbero state queste nuove figure a dettare l’inizio e la fine di determinate mode.

E nei secoli precedenti? Chi si nascondeva dietro le ombre degli aristocratici?
È qui che entra in scena una figura importantissima della storia del costume, sminuita forse per troppo tempo e rivalutata soltanto a partire dal XIX secolo: il sarto. Questi erano gli autori di quei cambiamenti che si manifestavano sui corpi dei potenti. Erano coloro che mediante personali esecuzioni seguivano gli andamenti politici, culturali ed economici del loro tempo per poi tradurli in nuove fogge. Ma, come sostiene la storica della moda Maria Giuseppina Muzzarelli, il mestiere del sarto era praticato quasi esclusivamente dagli uomini.

Giovanni Battista Moroni, Il sarto, Londra, National Gallery
Giovanni Battista Moroni, Il sarto, Londra, National Gallery

È forse successo qualcosa durante l’evoluzione della specie maschile? Il gene “fashionista” si è perso da qualche parte? Come raccontato nelle righe precedenti, il genere maschile è stato un grande protagonista della diffusione e produzione di moda nel corso della storia. E allora perché oggi non è più così? Perché culturalmente la moda viene raccontata e promossa come interesse femminile?
Credo che un primo motivo possa essere individuato nella semplificazione che subì l’estetica maschile nel XVIII secolo. Eccesso e ostentazione iniziarono a diventare aggettivi un po’ scomodi a causa di quegli ideali democratici borghesi. Più volte ho parlato della cosiddetta “Grande Rinuncia Borghese” come fenomeno importante nel rapporto uomo-moda, e anche in questo caso ci può tornare utile. Fu proprio questa rinuncia a spingere il genere maschile del XIX secolo a dire no a quelle forme più brillanti ed eccentriche, cedendole esclusivamente alle donne. A partire da questo momento, dunque, la moda intesa come cambiamento e decorazione non faceva più parte del bagaglio culturale dell’uomo. E un fattore che aumentò questo senso di repulsione nei confronti della moda, veniva visto nella nascita delle prime subculture gay.

L’Ottocento è un secolo molto complesso sotto tanti punti di vista, e uno di questi fu sicuramente la medicalizzazione dell’omosessualità.
Ma cosa c’entra la moda con tutto ciò? Molto. Scopriamo perché.
La sodomia era considerata contra ordinationem Creatoris et naturae ordinem. Questa “perversione sessuale” veniva vista come una minaccia per l’esistenza e la stabilità della classe borghese.
L’opera I crimini contro la morale dal punto di vista della medicina legale (1857) di Ambroise Tardieu fu molto importante sul piano dell’associazione dell’omosessualità con una determinata estetica. Egli mise in rilievo l’aspetto femmineo – dato anche dall’abito – e il corpo malato quali segni esteriori dell’omosessuale maschio. Questo statuto medico finì così col determinare la maniera stessa in cui la società percepirà l’individuo omosessuale. Tardieu descrive così l’aspetto di quei sodomiti che con la loro estetica fluida mettevano in crisi la binarietà:

«capelli ricci, pelle truccata, colletto aperto, vita sistemata in una forma accentuata; dita, orecchie, petto sovraccarichi di gioielli, l’intero corpo che emana odore dei più penetranti profumi, e, in una mano, un fazzoletto, fiori o qualcosa di cucito a mano: tale è la strana, rivoltante, e giustamente sospetta fisionomia che tradisce il pederasta»

Una «sospetta fisionomia che tradisce», che nella propria materialità comunica, incrimina, confessa tutti i nostri peccati.
In questa descrizione Tardieu fa riferimento alla subcultura gay londinese dei Macaroni (il nome fa riferimento al tipo di pasta italiana e alludeva allo stereotipo che vedeva legata al Bel Paese la sodomia che i veri letterati portavano in patria dopo il Grand Tour), che fornì il prototipo sociale dell’individuo deviato, “invertito”, malato. Insieme a loro possiamo ricordare i Mollies, i sodomiti effeminati delle classi popolari che si trovavano nelle taverne e nelle case pubbliche per socializzare e per travestirsi, ma soprattutto ricordiamo i Man-milliners, ai quali si associa, forse, quello che più tardi diventerà lo stereotipo dello stilista uomo gay. Infatti, il termine “man-milliner” fa riferimento a quegli uomini del settore della moda che producevano, decoravano, e/o vendevano abiti, cappelli e altri articoli alla moda per una clientela femminile.
Quindi, già a partire dal Settecento, e successivamente con una più chiara affermazione nell’Ottocento, il passaggio dalla moda aristocratica – manifestazione dello status sociale dell’indossatore – alla moda borghese – portavoce di saldi valori democratici – vede anche l’abbandono della moda come interesse da parte del genere maschile.

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La troppa attenzione per l’estetica e l’esagerazione nelle soluzioni stilistiche erano diventate, quindi, atteggiamenti contaminati, pericolosi e minacciosi, segnali di una personalità non troppo “maschile”, deviata. La monocromia e la tensione racchiusa nella standardizzazione dell’uniforme borghese creavano una sicurezza visiva, tale da sollevare l’individuo uomo nella percezione del proprio essere. Un modo forse per mettere le mani avanti e per affermare la propria mascolinità e virilità senza dover dimostrare o dire nulla.
Ma aldilà di questa ricostruzione storica del rapporto moda-uomo, rimane il fatto che l’interesse per questo universo è purtroppo ancora oggi stereotipato e “genderizzato”.
Sicuramente la cultura LGBTQ è stata, è, e sarà essenziale e protagonista nella cultura della moda, ed esiste un legame molto forte tra l’affermazione delle identità queer e le capacità comunicative dell’abbigliamento, in grado di creare un’estetica importante dal punto di vista della sovversione e del senso di comunità.

Ciò nonostante, non sempre “moda” è uguale a “gay”.

La libertà di scelta esiste, ma la tacita sanzione è sempre dietro l’angolo. Sei uomo e ti interessi di moda? Buon per te, ma forse è meglio se la metti da parte e ti dedichi ad altro, per esempio a studiare legge, economia, ingegneria, perché è questo quello che ti renderà un “vero uomo”. Non saranno la felicità, la gioia di studiare ciò che più ti piace, l’entusiasmo che metterai in ogni tuo esame e nel percorso che stai facendo. No, non sarà tutto ciò a renderti una persona, perché purtroppo sarà la società a decretarlo.

Ma forse il segreto per vivere bene lo sappiamo un po’ tutti: stare bene con sé stessi e dedicare la vita a ciò che amiamo di più. Se vedete di fronte a voi quella strada illuminata che vi chiama a gran voce, imboccatela, camminate, scavalcate ogni ostacolo, perché quello che troverete alla fine sarà la soddisfazione più grande di sempre.

La moda ci aspetta. E io sto correndo.

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  • l’identità di genere non può essere ridotta al dato culturale: tu e io siamo due uomini cisgender lo siamo in questa cultura e saremmo uomini cisgender anche in un’altra cultura con tutte le somiglianze e le diversità, io non sono appassionato di moda, tu sì, la tua passione non ti rende meno maschio, tu sei libero e maschile quanto un uomo appassionato di motori, nessuno di voi due è “omologato”. Ci sono tanti modi di essere uomo quanti sono gli uomini nel mondo, modi statisticamente più frequenti e modi meno frequenti ma tutti genuini e veri

  • e di sicuro non è una passione per la moda o per l’ingegneria che determinano identità di genere e orientamento sessuale. Ci sono molti stilisti gay ma non tutti, e questo non autorizza a pensare che uno stilista debba esserlo

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