Esattamente come accade per i femminicidi, così per i giornalisti che scrivono qualcosa di sessista. Invece di concentrarsi sul fenomeno, sul sintomo che rappresenta, tutti di corsa a dire “eh ma non tutti i giornalisti…” oppure “io volevo dire che…” o ancora “sono stato frainteso”. Rimane il dato di fatto che sono molto pochi i giornalisti che, ricevuta una critica sul loro sessismo, fanno un passo indietro e riflettono pubblicamente su quanto accaduto. Vediamo qualche esempio.
C’è chi racconta una manifestazione femminista con queste parole:
Ragazze militanti ormai sui sessanta ma che vestono secondo la moda dei punkabbestia black blok, con tute nere, zainetti scuri, scarponcini da esproprio proletario, felpe e con vistosi anelli da marinai di baleniera al naso: sembravano tante Eva Kant del fumetto Diabolik, ma in sovrappeso. Alcune zitelle apparivano muscolose, androgine e tatuate come il baleniere Achab del romanzo di Melville, altre sembravano meno truci, e firmatissime secondo la moda vintage delle figlie dei fiori: gonnelloni rom, scialloni balcanici, come prescrive il look delle amene radicalette chic e debs dei licei bene no global.
C’è anche chi condisce il sessismo con del sano razzismo:
La Barbie coi brufoli no. La Barbie cessa, struccata e con le smagliature (si attaccano tipo cerottini) però no, vi prego. E invece sì, la vendono, qualche femminista invita a regalarla per Natale: si chiama Lammily – la bambola – e sembra una bulgara sfondata da dodici gravidanze. […] Le misure complessive sarebbero quelle medie delle ragazze di 19 anni: ma forse quelle americane, o del casertano, sta di fatto che nel complesso il modello è quello di – si diceva ai miei tempi – un roito, insomma una brutta.
C’è chi racconta per stereotipi sessisti le relazioni tra persone:
Perché l’istinto salvifico fa parte della natura femminile, così come l’attrazione per l’energia maschile di cui i «bastardoni» sono purtroppo mediamente più dotati dei romantici […] i bastardoni, che per lei in fondo sono una seconda scelta rispetto all’uomo vero.
Ce n’è anche per la mamma:
Ecco una pulsione tipicamente femminile. […] Mi ricordi mia madre che, quando uno dei suoi fratelli andò a dirle che si era licenziato dal posto fisso per avviare un’attività imprenditoriale, poco ci mancò che svenisse. Con questo non voglio dire che tutte le donne siano conservatrici e nemiche del rischio. Anzi, ammiro la loro capacità di adattarsi al cambiamento e accettare con pragmatismo le condizioni date, senza indulgere in controproducenti torcicolli emotivi […]. E a rovinare i rapporti umani non è mai la situazione in sé, ma la mancanza di cura con cui la si affronta.
Se pensate che sia un problema circoscritto agli “opinionisti”, ecco un bell’esempio di cronaca nera sessista:
Alexander ai primi di luglio parte per tornare a casa, a Craiova. Quando arriva, dentro la sua abitazione non trova nessuno. La prima figlia è sposata, gli altri due ragazzi non lo aspettano. L’uomo, allora, va a trovare i fratelli e nota un certo irrigidimento quando chiede dove sia la moglie. Ma all’inizio non ci fa caso. Poi, il tempo passa e la donna non torna, finché arriva la sera. A quel punto il marito sospetta qualcosa. Chiede ancora lumi ai parenti, finché qualcuno si fa coraggio e parla. «Guarda che tua moglie si è trovata un altro e che passa il suo tempo a casa dell’amante». Parole che bruciano come acido sulla pelle. L’uomo va su tutte le furie e medita vendetta. Ma come? Lui si sacrifica, sta lontano dalla famiglia, manda a casa i soldi necessari per vivere e quando torna, trova sua moglie con un altro? Il romeno chiede dove abita il rivale e qualcuno glielo dice. Così, va a regolare i conti a casa di quest’uomo. Quando arriva ed entra, trova la moglie con lui. Furibondo e fuori di sé prende un coltello, colpisce a morte la donna e ferisce gravemente l’uomo. Solo l’intervento di più persone e della polizia riesce a domare la sua furia.
Prima di pensare che chi scrive stia esagerando, ricordo che esistono delle raccomandazioni della Federazione Internazionale dei Giornalisti (IFJ) sull’argomento. Regole che si sono dati gli stessi giornalisti, che spesso e volentieri sono ampiamente disattese.
Ancora:
Ci ha provato, gli è andata male, e ora si è beccato un anno e quattro mesi di reclusione e una provvisionale di 8mila 500 euro. Mai si sarebbe aspettato di pagare uno scontrino così salato per le avance nei confronti di una sua parente. Certo, il suo approccio non era stato dei più romantici. Prima ha tentato un bacio, e lei ha girato la faccia dall’altra parte. Poi ha afferrato la mano della donna e l’ha portata sui suoi pantaloni, all’altezza delle parti intime. Lei si è divincolata, lo ha respinto, ha urlato.
Più avanti nell’articolo questo giornalista completa la sua personale diagnosi anche su di lei: “l’episodio non scivola sulla donna come se niente fosse. Lei ha un carattere fragile”, e continua a raccontare dei problemi psicologici della donna.
Esempi presi del tutto casualmente da un campionario quotidiano. Proviamo a fare qualche considerazione.
Il sessismo è un dato culturale, comprovato e dimostrato da decenni di riflessioni femministe sul linguaggio, sulle relazioni, sull’educazione. I giornalisti e le giornaliste, in quanto immersi e immerse in questa cultura, non ne sono immuni per natura. Se non riflettono su loro stessi e loro stesse, sui propri comportamenti e condizionamenti, in ciò che scrivono – come per qualsiasi attività di qualsiasi altra persona – si rifletterà il sessismo della loro cultura e formazione.
La volontà del singolo, in questo processo educativo, non conta nulla. Non si può decidere autonomamente di essere cresciuti al di fuori di quei condizionamenti patriarcali, perché essi costruiscono l’identità di genere – soprattutto degli uomini etero. È già abbastanza ridicolo che un o una professionista della comunicazione si difenda dalle critiche con un banale “io volevo dire che” o peggio ancora con un “voi non avete capito che”; in più, se non si è fatto un lavoro specifico sul proprio linguaggio e il proprio modo di vedere il mondo delle relazioni, la volontà da sola non basta certamente.
Nessuno vuole con ciò mettere in discussione la libertà d’espressione, né censurare. In primo luogo perché la censura, per definizione, è attuata dal potere vigente e non da chi ne subisce le espressioni discriminanti; secondariamente quello che importa a chi lotta contro ogni forma di sessismo non è l’opinione di un singolo, ma chiamare le cose col proprio nome per far assumere a ciascuno e ciascuna la responsabilità della propria opinione – soprattutto se si fa un lavoro così importante nei confronti del pubblico come il giornalismo. Il sessismo va chiamato col suo nome, sempre.
Descrivere delle manifestanti con aggettivi sprezzanti relativi al loro corpo sessuato è sessismo. Usare i propri criteri estetici o quelli della moda per disprezzare corpi o rappresentazioni di corpi secondo il genere è sessismo. Ragionare per stereotipi di genere e sulla base di quelli raccomandare una condotta è sessismo. Immaginare i pensieri di chi ha commesso una violenza di genere per spiegarne le motivazioni ponendo le vittime in cattiva luce è sessismo. Se questi sono già comportamenti deplorevoli e dannosi quando li attua un individuo qualsiasi, a maggior ragione vanno pubblicamente biasimati quando li attuano professionisti della comunicazione, letti e seguiti da migliaia di persone.