Articolo di Alessandra Vescio
«Nessuno dei traguardi di parità di cui oggi godiamo sarebbe pensabile senza il coraggio di donne che, pur non facendo esplicitamente attività politica, con le proprie scelte di vita hanno saputo aprire strade di indipendenza per se stesse e per quelle che sarebbero venute».
Sono parole intense e significative quelle di Veronica Cruciani, regista dello spettacolo teatrale, prodotto da Sardegna Teatro, Quasi Grazia, che racconta della scrittrice Premio Nobel Grazia Deledda; parole che, inoltre, ben fanno intendere il principio dietro la scelta di portare a teatro oggi una storia apparentemente molto lontana da noi in termini di tempo e condizioni politiche e sociali.
Tratto dal «romanzo sotto forma di teatro» scritto da Marcello Fois, Quasi Grazia è uno spettacolo diviso in tre atti, ognuno dei quali corrisponde a un evento importante della vita della Deledda, interpretata magistralmente dalla scrittrice, giornalista, attivista e conterranea Michela Murgia.
Il primo atto è ambientato a Nuoro nel 1900, e precisamente ci si trova a casa di Grazia, poco prima della sua partenza per Roma con il marito Palmiro Madesani. La scrittrice sta ultimando la preparazione dei bagagli, mentre Lia Careddu, nei panni della madre rimasta vedova, si lascia andare a rimproveri, prima solo sottintesi e poi sempre più espliciti e dolorosi, intrisi di timori e preconcetti. È qui che si fa immediatamente chiaro il fulcro della storia: Grazia Deledda è troppo lontana dallo stereotipo della donna che si occupa della casa, del marito e della famiglia prima che di se stessa.

Sposata «davanti agli uomini e a Dio», è comunque una con «i grilli per la testa», come dice la madre: fare la scrittrice, rifugiarsi nei romanzi, trascorrere ore e ore a leggere e a scrivere è tutto «tempo rubato all’esercizio del fare la femmina», le fa il verso Grazia. Ma non solo: a fare ancora più male a entrambe, seppure in modo diverso, è ciò che le aspirazioni della giovane autrice hanno provocato tra la gente. Le chiacchiere e i pettegolezzi, gli insulti velati e le critiche: «noi siamo gente riservata» e «se la gente parla, un motivo c’è», chiosa la madre. Poco importa quanto la scrittura abbia salvato Grazia, quanto la letteratura sia importante per lei, quanto la voglia di autodeterminarsi la porti lontano da rigide regole sociali e familiari; non importano i sacrifici e le ferite di una figlia che ogni giorno lotta con la distanza tra sé e gli altri, tra le sue ambizioni e le aspettative, tra il desiderio di realizzazione e le gigantesche catene di una società patriarcale.

Il secondo atto è l’incoronazione di un sogno. È il 1926 e Grazia e Palmiro sono a Stoccolma, perché il giorno seguente la Deledda riceverà il Nobel per la Letteratura.
Se nel primo atto la scrittrice ha dovuto fare i conti con le dicerie di paese e le costrizioni di un privato asfissiante, nella seconda parte della pièce la Deledda si ritrova a destreggiarsi tra critiche audaci e invidie pungenti. I giornali infangano il suo nome, i colleghi ne ridicolizzano il privato. È difficile in effetti accettare troppe cose di questo personaggio fuori dal comune: stiamo pur sempre parlando di una donna che lascia la famiglia e il suo paese d’origine per seguire le sue ambizioni, al fianco di un uomo che ama e con cui ha costruito un rapporto alla pari.
Quante ne sono state dette e quante ne hanno scritte su Palmiro Madesani, giovane funzionario pubblico del “Continente”, follemente innamorato e sinceramente convinto delle abilità letterarie della donna che ha sposato. Interpretato da Marco Brinzi, Madesani è il vero alleato della Deledda, il sostegno e la calma, in una parola la sua «fortuna», come dice lei stessa. E a lui l’autrice dedicherà il romanzo Nostalgie con una dedica che ben descrive quell’amore raro per quei tempi:
«Ricordando appunto il semplice romanzo dei nostri primi anni di matrimonio, oggi che un po’ per la mia buona volontà, molto per la tua attività intelligente, senza mai abbassarci ad una transazione con la nostra coscienza, abbiamo raggiunto quasi tutti i nostri sogni, dedico a te, mio caro compagno di lavoro e di esistenza, questo racconto…»
Tra i tanti detrattori, durante lo spettacolo i coniugi citano Luigi Pirandello: il romanziere e drammaturgo siciliano infatti scrisse un romanzo dal titolo Suo marito, in cui in tanti riconobbero il tentativo di prendere in giro Madesani per screditare la Deledda. D’altronde non era un segreto che Pirandello più volte avesse chiamato il marito della scrittrice «Grazio Deleddo».
Per le scrittrici e per le donne in generale, quelli sono anni molto delicati: siamo nel pieno della prima ondata di femminismo e la figura maschile patriarcale inizia a subire degli smottamenti. Nel 1919 la legge Sacchi riconosce l’uguaglianza giuridica della «donna maritata», abroga l’istituto dell’autorizzazione maritale e le donne vengono ammesse agli uffici tutelari e nei pubblici impieghi; un anno dopo viene però emanato un regolamento che stabilisce le numerose eccezioni alla legge: le donne infatti non possono comunque accedere alla magistratura, alla carriera militare e alle cariche direttive nello Stato. Nel frattempo molte donne si avvicinano pubblicamente alla letteratura e tanti scrittori iniziano a temerne la concorrenza: l’unico mezzo che hanno per combatterla è screditarle pubblicamente in qualunque modo, che sia attaccando la vita privata o la presunta inferiorità della letteratura femminile.
Nonostante tutto, il pomeriggio che precede la cerimonia per la consegna del Nobel è un momento di gioia per Grazia e Palmiro: marito e moglie danzano e si scambiano tenerezze, si dicono complici e si mostrano innamorati e uniti più che mai, increduli ma consapevoli del successo e rabbuiati solo da quegli incubi ricorrenti che sembrano voler ricordare alla Deledda da dove arriva: una «condizione di minorizzazione sociale», la definisce la Murgia.

Il terzo e ultimo atto si svolge in uno studio medico nel 1935. A introdurlo ci sono due monologhi struggenti: Palmiro e la madre raccontano e indagano due storie della Deledda, e si soffermano su quella incomprensibile tendenza della scrittrice a narrare situazioni crude, vere, verrebbe da dire senza speranza. «[…] tu hai chiuso le porte a ogni consolazione», le rimprovera la madre, «Hai l’onnipotenza delle storie che scrivi, ma ti rifiuti di esercitarla».
Ferma e pacata, la risposta della figlia: «[…] ognuno è semplicemente quello che è», riferendosi ai suoi personaggi senza redenzione, «Ribadire le ovvietà: ecco il mio lavoro, mamma».
La narrazione riprende da uno dei momenti più drammatici della vita dell’autrice, ovvero quando le viene comunicato che la malattia che le sta rubando le forze è ormai incurabile. A non riuscire ad accettare questo mancato lieto fine però è soprattutto Palmiro, mentre Grazia, in cuor suo, crede di aver ottenuto «tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino».
Eppure a pensarci bene, qualcosa le è stato negato. Perché se è vero che è riuscita nell’arduo intento – per quei tempi – di affermarsi e realizzarsi «senza diventare una schiava», d’altro canto non ha avuto lo stesso riconoscimento che altri autori – Premi Nobel e non – hanno ottenuto in Italia e all’Estero.
«In un mondo migliore […] basterebbe l’educazione alla lettura, l’idea che il traguardo di uno scrittore, e il Nobel è un traguardo notevole, rappresenti un traguardo del lettore, ma, considerando che Grazia Deledda non è nemmeno compresa nel canone ministeriale, pur essendo a tutt’oggi l’unica donna italiana ad avere ricevuto l’ambito premio, è evidente che siamo lontanissimi dall’abitare una civiltà letteraria matura», si legge tra le note di Marcello Fois allo spettacolo Quasi Grazia.
Ed è proprio questo aspetto a far riflettere: Grazia Deledda ha raggiunto obiettivi e traguardi che molti suoi colleghi uomini non hanno meritato, ma che comunque invadono con prepotenza le nostre antologie letterarie e non solo. Quanti di noi invece hanno avuto la possibilità di studiare e approfondire le opere di Grazia Deledda? Perché ancora oggi il suo contributo è relegato a poche pagine sui libri di scuola? E per quale motivo quando si parla della scrittrice sarda e del Nobel che ha ricevuto molti ancora lo definiscono, seppur con imbarazzo, una sorta di errore o perlomeno non come la scelta più giusta per quell’anno?
Triplice diventa perciò la chiave di interpretazione dello spettacolo Quasi Grazia.
Il primo piano di lettura infatti è sicuramente quello legato al riscatto: dopo anni di oblio, la letteratura e la storia di Grazia Deledda meritano di essere riportati in auge, riconsegnandole quel riconoscimento che le è stato negato ingiustamente e per troppo tempo.
Il secondo piano di lettura racconta la storia di una donna che diventa un esempio e uno stimolo: «La sua storia di determinazione personale è un paradigma non solo per le donne di tutti i tempi, ma per chiunque voglia realizzare un sogno partendo da una condizione di minorizzazione sociale».
La terza prospettiva infine è quella che porta a riflettere sulla condizione femminile e sulla nostra società, sui passi avanti fatti e su quelli che ancora dobbiamo fare.
«Mentre Grazia Deledda lottava per il suo sogno, costruiva le condizioni perché tutte le scrittrici dopo di lei realizzassero il loro». E non solo loro, aggiungiamo noi.
Si riflette, ci si commuove, si sorride spesso amaramente durante la lettura del testo teatrale e la visione dello spettacolo. Ci si immedesima nonostante la distanza nel tempo, e capire se questo sia un bene o un male aprirebbe complesse reti di pensiero.
Ma soprattutto con Quasi Grazia ci si pone delle domande. Ed è forse questo ciò che rende un’opera letteraria, teatrale e artistica unica e straordinaria.