Articolo di Francesca Anelli
Per parlare di cinema da una prospettiva femminista e inclusiva o semplicemente in maniera completa, specie a ridosso degli Oscar, è importante capire che quest’arte e tutto ciò che vi gira intorno (compresa l’awards season) è anche e soprattutto una questione di sguardi, ed è da questi e dalla loro caratterizzazione di genere che dipende la presenza o l’assenza di donne tra le fila di “quelli che contano”.
La studiosa di cinema Laura Mulvey è stata la prima, nel 1975, a discutere della pervasività di un certo tipo di sguardo nello sviluppo delle consuetudini registiche e dello stesso canone cinematografico: quello maschile ed eterosessuale, che ha chiamato, appunto, “male gaze”. Mulvey infatti afferma che “lo squilibrio di potere tra i generi al cinema” è costruito per il piacere dello spettatore maschile ed eterosessuale perché, in una società di stampo patriarcale, è considerato sempre il primo target di riferimento. In altre parole, il pubblico al cinema è costretto a guardare le donne dal punto di vista di un uomo etero, o meglio da quello che si ritiene essere il punto di vista di un uomo etero, a prescindere dal fatto che tale pubblico sia composto anche da donne, uomini omosessuali, persone trans, asessuali o non binarie. Questo approccio influenza non soltanto il modo in cui uomini e donne vengono ripresi, e dunque l’aspetto più strettamente tecnico del lavoro di regia, ma anche il ruolo che hanno all’interno della storia.
Non si tratta, quindi, soltanto della costante sessualizzazione e oggettificazione delle donne attraverso, ad esempio, le classiche inquadrature dall’alto verso il basso che insistono su alcune parti del corpo femminile, ma anche dello spazio e l’attenzione a esse dedicato: si sprecano, infatti, i vari stereotipi sessisti che non soltanto ingabbiano le donne in categorie predefinite (come la “cool girl”, la ex pazza, la damigella in pericolo o la “donna forte”) ma le relegano a semplici “espedienti narrativi” per fare andare avanti la trama e il percorso di caratterizzazione del protagonista maschile (la donna nel frigorifero) o titillare le fantasie degli uomini etero (born sexy yesterday).
Tutto questo ha a che fare, ovviamente, con una presenza maschile storicamente maggioritaria rispetto a quella femminile, all’interno dell’industria come della critica, che ha portato alla creazione non soltanto di una certa estetica ma anche di un preciso immaginario, un canone e, infine, delle gerarchie. Sì, perché va da sé che, quando a girare film sono soprattutto uomini che si rivolgono a un pubblico di uomini (o magari anche di donne ma sempre secondo logiche patriarcali), a definire cosa è “importante”, “bello”, “innovativo” sarà, ancora una volta, il male gaze. Anzi, con un’espressione coniata dalla critica Lili Loofbourow, il male glance: lo sguardo veloce e distratto che l’industria culturale maschio-centrica riserva ai prodotti femminili, ritenuti irrimediabilmente “inferiori”.
Se vi sembra un’esagerazione, provate a pensare a come vengono percepiti film e serie tv, ma anche libri, scritti/diretti/interpretati da uomini rispetto a cosa pensiamo, anche istintivamente, di un prodotto targettizzato come “femminile”: la saga di “L’amica geniale” è, alternativamente, una schifezza per casalinghe annoiate oppure troppo di successo per essere stata scritta da una donna; “Mad Men” parla della condizione umana e va vista da tutti ma “Fleabag” si occupa solo di quella femminile (e quindi è intrinsecamente meno rilevante e indirizzato a un pubblico specifico); un film d’amore può essere “d’autore”, profondo, visionario solo se diretto da un uomo, altrimenti rimane un “chick flick”. Più in generale, tutto ciò che riguarda gli uomini, che è stato scritto/diretto da uomini e/o si rivolge a uomini può aspirare al titolo di classico o capolavoro in senso assoluto, il resto, al massimo, può esserlo “nel suo genere”.
In un contesto di questo tipo, ogni discorso sulla meritocrazia nel cinema, che puntualmente viene fuori se si osa lamentare l’assenza di donne tra le nomination dei premi principali, non può che essere miope, perché non tiene conto del fatto che il meccanismo è truccato in partenza. Come ha sottolineato Joaquin Phoenix nel suo bellissimo discorso ai premi Bafta 2020, chiedere una maggiore rappresentazione (in questo caso delle persone di colore) non significa chiedere un trattamento privilegiato a fronte di una produzione mediocre, perché è il sistema stesso che garantisce da sempre dei privilegi a chi lo ha creato a sua immagine e somiglianza e che, quindi, stabilisce cosa è mediocre e cosa è straordinario in maniera autoconservativa.
Non è, quindi, un caso se l’unica donna a vincere il premio come miglior regista sia stata, fino ad ora, Kathryn Bigelow con “The Hurt Locker”, ovvero un film di guerra, che sceglie un genere considerato “maschile” e dunque non si “auto-ghettizza”. Analogamente, non è un caso che sia fuori dalla corsa agli Oscar 2020 il bellissimo “Hustlers” (o in italiano “Le ragazze di Wall Street”) di Lorene Scafaria, un gangster movie che si ispira dichiaratamente a “Quei bravi ragazzi” di Martin Scorsese ma in una dimensione e con una visione tutta femminile, sia per quanto riguarda lo sviluppo del racconto che le scelte registiche. O ancora, non sorprende di certo l’assenza di “Ritratto della giovane in fiamme”, lo splendido film di Céline Sciamma dedicato alla storia d’amore tra due donne in un universo narrativo in cui gli uomini sono assenti o lontani, la cui mancata nomination non è evidentemente legata soltanto a questioni produttive ma anche, potremmo dire, ideologiche. Infine, dato quanto appena scritto, l’assenza di Greta Gerwig nella cinquina della miglior regia non può che essere uno smacco annunciato, nonostante il lavoro incredibile di adattamento portato avanti dalla regista con “Piccole donne”.
Quello che la critica sta iniziando a definire “female gaze”, ovvero lo sguardo femminile in contrapposizione a quello maschile dominante e oggettificante in senso eteronormato, offre la possibilità non soltanto di riflettere su ma anche di innovare radicalmente il linguaggio cinematografico, proprio perché nasce da una posizione di subalternità sociale e culturale e, in quanto tale, rappresenta un punto di vista fresco e originale. Eppure questo sguardo viene ancora bollato come irrilevante, o semplicemente ignorato – come suggerisce l’attrice Carey Mulligan, che in un’intervista lascia intendere che i membri dell’Academy potrebbero non aver nemmeno visto un numero sufficiente di prodotti candidabili e in particolare quelli diretti da donne, come, appunto, “Hustlers” o “The Farewell” di Lulu Wang.
Se le donne si fiondano a vedere “C’era una volta a… Hollywood”, che pure è stato accusato di sessismo nel ritratto che ha fatto dell’attrice Sharon Tate, ma non sono altrettanti gli uomini che ritengono fondamentale dare una chance a “Piccole donne”, non è quindi solo perché Quentin Tarantino è più famoso di Greta Gerwig, anzi, potremmo dire provocatoriamente che Greta Gerwig non è famosa quanto Tarantino anche perché gli uomini non si preoccupano abbastanza di andare a vedere i suoi film, compresa la sua ultima fatica piena di grandi star e tratta da uno dei più popolari romanzi della storia (che a sua volta probabilmente molti uomini non avranno letto perché ritenuto “da femmine”).
Ogni discorso su merito o bravura, insomma, non può non tener conto dello squilibrio di potere alla base del canone cinematografico, nonché della percezione di tutto ciò che è femminile in una società che ci ha insegnato a valutare il lavoro delle donne come poco importante o a richiedere alle stesse un livello di perfezionismo che non si ricerca nelle controparti maschili. La domanda “ma per fare posto a Greta Gerwig (o a qualsiasi altra regista) allora chi avresti escluso?” è quindi mal posta: non si tratta di fare spazio alla creatività femminile come fosse una concessione, includendola forzatamente in un circolo riservato in cui tutti i posti sono già occupati, ma di rivedere l’idea stessa di “elite cinematografica” come un club per soli uomini.
questo articolo è pieno di inessattezze. Per prima cosa, Laura Mulvey non è oro colato, e le sue teorie sono discutibili come tutte le altre, io non le condivido, il cinema racconta l’eros come racconta titto ciò che èumano e rappresntare una donna (o un uomo) in maniera sexy anche attraverso determinate inquadrature non è oggettificarlo, perc hè il sex appeal, l’attrazione che un bel corpo e un bel viso ci suscita è cosa umana e bellissima che il cinema ha il diritto di raccontare.
l’ultimo film di tarantino non è sessista e chi lo pensa è un imbecille.
oggi ci sono nei film personaggi femminili belli e complessi come quelli maschili non sono stereotipi come quelli elencati nell’articolo la cui formulazione è peraltro discutibile
e anche la cool girl, la strong woman, il trope narrativo di ui che salva la donna amata in pericolo (e ci sono molti film in cui lei salva lui) non hanno nulla di sessista
Posso avanzare una critica di carattere generale? Il fatto che le autrici non rispondano mai ai commenti non è molto “elegante”. Si fa un gran parlare di “creare cultura insieme” (per dirla con la Facheris) e poi manca la prima cosa, i.e. il dialogo. Vi leggo da un po’ (senza commentare) e mi pare sempre di assistere a delle omelie.
Ciao Ned, se non fosse chiaro dal pezzo preciso: il problema non è la rappresentazione dell’eros in quanto tale, ma le modalità oggettificanti con cui certi sguardi lo mettono in scena. Il film di Céline Sciamma citato, ad esempio, racconta una storia d’amore che è anche molto fisica.
Infine, qui si parla di tendenze: è chiaro che esistono film che si elevano dallo stereotipo e che possono essere diretti da uomini (male gaze non significa “lo sguardo di OGNI SINGOLO uomo”, per fortuna), ma stiamo cercando di tracciare un percorso e individuare alcuni punti importanti nell’ambito dell’evoluzione della rappresentazione femminile. Purtroppo certi meccanismi – che sì, sono sessisti (il che non significa che chi li attua lo sia in maniera consapevole e maliziosa – sono appunto meccanismi narrativi ben radicati) – rimangono ancora estremamente pervasivi. E questo è un problema non solo per le donne, ma anche per gli uomini, a loro volta ingabbiati in ruoli che non necessariamente rispecchiano il proprio sentire.
Grazie Francesca Anelli, trovo il tuo articolo molto interessante e che ha centrato un tema fondamentale: l’industria cinematografica nella sua struttura e nel modo di vedere il ruolo femminile, meccanismi purtroppo annidati e ossidati nel tempo che hanno una chiusura a tutto campo per i film diretti da donne.
quando guardo un film non cerco la rappresentazuone del “mio sentire”, cerco una buona storia con personaggi e dinamiche credibili (la strong woman, è un tipo di persona che può esistere, ed è giusto sia raccontata come sono raccontate altre).
sinceramente non credo che i meccanismi narrativi e la rappresentazione dell’eros nella maggior parte dei film sia sessista
Grazie per questo articolo!